L’Illimitato nelle Antiche Cosmogonie
Manvantara: un Sogno, una Maya
La Realtà Spirituale e l'Illusione Nata dalla Mente
"Che cosa è ciò che è sempre?" – "Lo Spazio, l'eterno Anupadaka." [Senza Genitori] – "Che cosa è ciò che fu sempre?" – "Il Germe nella Radice." – "Che cosa è ciò che va e viene continuamente?" – "Il Grande Soffio." – "Vi sono dunque tre Eterni?" – "No, i tre sono uno. Ciò che è sempre è uno, ciò che fu sempre è uno, ciò che sempre è e sempre diverrà è pure uno: e questo è lo Spazio." (La Dottrina Segreta I, 11, ed. or.; p. 54 online Istituto Cintamani.)
Di tutti i meravigliosi insegnamenti dell'antica saggezza, altrimenti chiamata filosofia esoterica o teosofia, nessuno forse è così pieno di un pensiero suggestivo come la dottrina che concerne lo Spazio. In uno dei suoi aspetti è chiamato Sunyata, una parola profondamente significativa che si trova nelle dottrine più mistiche di Gautama il Buddha, e che vuol dire vacuità o vuoto; e sotto un altro aspetto è il Pleroma, un termine greco usato frequentemente dagli gnostici, che significa pienezza.
Gli astronomi di oggi parlano spesso di spazio vuoto, e mentre a prima vista sembra più o meno la stessa cosa di Sunyata, noi respingiamo l'idea, se per spazio vuoto intendono la vacuità assoluta – qualcosa che è non-esistente. Il fatto straordinario è che anche gli scienziati, messi alle strette da domande probatorie, ammetterebbero che questa frase si riferisce semplicemente a delle porzioni di spazio o campi cosmici che non contengono 'materia,' cioè nessuna materia fisica che possano riconoscere o vedere con i loro strumenti.
Quando esaminiamo l'espansione illimitata dello Spazio sconfinato intorno a noi, per quanto lontano ci possano portare la nostra visione e la nostra immaginazione, vediamo campi di vuoto cosmico disseminati di stelle lucenti, e milioni e milioni di fasci di luce che sono le nebulose, le quali, viste sotto il potere rivelatore del telescopio, sono esse stesse universi di altre stelle e ammassi stellari – o anche vasti corpi di gas cosmico. Comunque, in qualche caso isolato non sono gas; ma qui quest'incidenza non ci riguarda, se non per sottolineare che molte, se non tutte, di queste nebulose irrisolvibili, appartengono a campi di materia superiore a quella fisica, che finora non è mai stata studiata in laboratorio. In altre parole, le nebulose sono composte di materia eterea di un piano superiore al nostro piano fisico.
Ovunque guardiamo, siamo consapevoli che l'universo è una pienezza immensa. Se aggiungiamo a questo la nostra conoscenza della struttura della materia, composta com'è di molecole, atomi, e questi, a loro volta, di elettroni e protoni ed altri corpi, realizziamo che quello che ci appare come uno spazio vuoto deve contenere effettivamente i campi di etere cosmico che, a causa della sua impalpabilità, né il nostro organo della vista, né il nostro senso del tatto, e nemmeno i nostri strumenti più delicati, possono sottoporre a sperimentazione. Nondimeno, tutti questi vasti campi di globi lucenti sono contenuti nel piano fisico inferiore che conosciamo come universo fisico o materiale. Inoltre, realizziamo che la sfera fisica è soltanto il rivestimento esterno che nasconde mondi interiori indecifrabilmente immensi ed invisibili, che variano da quelli fisici in alto fino alle sempre sfuggenti vedute dello spirito cosmico che, in definitiva, poiché per noi è senza forma, chiamiamo il Vuoto spirituale o Pienezza, Sunyata. Non solo Sunyata significa il campo supremo e più universale dell'Infinito illimitato, ma così è anche per il Pleroma. Tutto dipende dall'angolo di visuale che adottiamo.
La dottrina del Vuoto, quindi, è identica, nel suo concetto fondamentale, alla dottrina della Pienezza. Vi è comunque una distinzione, in quanto la dottrina del Vuoto è la più spirituale delle due, poiché tratta particolarmente i principi-elementi superiori del kosmo,[1] e degli spazi sempre più interni dello Spazio; mentre la dottrina della Pienezza tratta dei cosmi o mondi in manifestazione. Possiamo comprendere la pienezza delle cose più facilmente rispetto al pensiero profondamente mistico che dal Vuoto illimitato vengono in vita tutte le innumerevoli manifestazioni dell'Esistenza kosmica; e che poi spariscono nel Vuoto stesso quando il loro ciclo di vita si è concluso.
In altre parole, il Vuoto si riferisce al lato divino-spirituale dell'Esistenza; mentre la Pienezza, il Pleroma,[2] si riferisce a prakriti, il lato materiale, il lato della manifestazione, che svanisce come un sogno quando il grande manvantara, il periodo dell'attività del mondo, è finito.
Un altro punto importante è che ogni essere o cosa in manifestazione, proprio a causa della loro esistenza temporale come fenomeno, non sono eterni. Di conseguenza, è maya, illusione; e quindi sarebbe da insensati cercare la Realtà cosmica in questi fenomeni. Qualsiasi cosa che appare nei campi dell'Illimitato, sia un ammasso di nebulose o un atomo, qualsiasi cosa che è un oggetto o una forma, e non importa quanto sia lungo o breve il periodo della sua vita, non è tuttavia un'apparenza, un fenomeno, e quindi è de facto vuoto, nel senso di non-reale – che è un uso esattamente opposto del termine vacuo o vuoto impiegato prima. Comunque, questo senso opposto è legittimo nella filosofia metafisica; e vediamo quindi perché il Buddhismo esoterico parla costantemente dell'universo manifestato come Sunyata, perché non reale, non eterno, quindi temporale e transitorio.
Nel Surangama-Sutra (iv, 65; consultare A Catena of Buddhist Scriptures from the Chinese, di Samuel Beal, 1871) troviamo:
In questa ricerca, quindi, dovete comprendere chiaramente che tutte le forme mondane che entrano nella composizione del mondo fenomenico sono transitorie e deperibili. Ananda! di tutte queste forme che vedi, dalla natura fittile a cui si allude, quale è indistruttibile? Sono tutte destinate ad essere dissolte; ma dopo la loro distruzione vi è una sola cosa che non può mai perire, ed è il vuoto dello spazio.
Nondimeno, sono questi vasti aggregati di mondi a formare il Pleroma, o la Pienezza dello spazio manifestato. La difficoltà sta nel duplice uso di questi due termini, Sunyata e Pleroma; e tuttavia possiamo comprenderlo facilmente quando i pensieri sono afferrati alla radice. Come H. P. Blavatsky l'ha espresso:
Lo Spazio non è un "vuoto illimitato," né una "pienezza condizionata," ma entrambi: essendo, sul piano dell'astrazione assoluta, la Divinità sempre sconosciuta, che è vuota solo per le menti finite, e sul piano della percezione mayavica, il Plenum, il Ricettacolo assoluto di tutto ciò che è, sia manifestato che immanifesto: è dunque quel tutto assoluto. (La Dottrina Segreta, 1, 8 ed. or.; p. 31 online Istituto Cintamani, versione stampabile)
Sunyata, come termine, può essere impiegato con due significati diversi ma correlati. Se considerato come un termine positivo, sta per il Tutto illimitato, lo Spazio nel suo senso superiore e più astratto, che implica un'infinitudine perenne ed illimitata, priva di qualsiasi requisito, come pure la Pienezza del Tutto, che include ogni cosa, eterna. Ė l'universo con tutto quello che vi è contenuto, visto dalla prospettiva dei regni spirituali-divini, che alle intelligenze che vivono in sfere inferiori sembra essere il Grande Vuoto — Mahasunya.[3]
Quando Sunyata è considerato negativamente, si riferisce all'idea dell'illusione kosmica, il mahamaya. Dalla prospettiva della coscienza divino-spirituale, l'intero universo oggettivo, visibile o invisibile, è irreale ed illusorio, perché è impermanente. Ė vuoto nel senso che è evanescente. Non significa che l'universo manifestato non esista; esiste, altrimenti non potrebbe fornire un'illusione, ma non è quello che sembra essere. Così, sia il significato positivo che quello negativo di Sunyata si basano sulla stessa idea fondamentale, cioè la realtà del divino-spirituale, e la relativa irrealtà di tutto ciò che è oggettivo. Il kosmo manifestato, essendo relativamente falso ed ingannevole, è vuoto di significato essenziale se paragonato al Reale che esso nasconde come con velo. Possiede solo una realtà relativa derivante dalla Radice noumenale di cui questo universo oggettivo è l'aspetto fenomenico.
Torniamo ancora al Surangama-Sutra (v, 8):
La Natura Pura, per quanto riguarda la sua esistenza sostanziale, è vuota; le influenze, quindi, che producono la nascita, sono come una magica illusione. L'assenza di azione e l'assenza di un inizio e una fine anche queste sono false idee, come un fiore del cielo. Il termine 'falso' ha origine (si manifesta) solo da ciò che è vero – falso e vero sono insieme ugualmente falsi . . . Tutte le cose intorno a noi non sono forse una bolla di sapone?
L'Illimitato, l'infinitudine dello Spazio circostante, ovviamente è oltre la portata di qualsiasi concetto umano, perché è senza forma e senza frontiere di confinamento, e tuttavia è la matrice cosmica di tutti gli universi che si manifestano da esso come "scintille dell'Eternità." Di conseguenza, i mistici di varie epoche e di tutti i paesi, l'hanno chiamato il Vuoto.
Questa, di fatto, era la sublime idea, originaria e veritiera, di cui s'impadronirono i primi speculatori teologici cristiani e la chiamarono il "Nulla," distorcendo così non solo il concetto com'era nella sua primitiva grandiosità, ma annullandolo positivamente. Da allora in poi, la teologia ortodossa ha reso Onnipotente Dio facendogli creare il mondo dal nulla, il che è assurdo. Se avessero concepito questa Assolutezza come Nessuna-Cosa, allora avrebbero mantenuto l'idea corretta. Ma l'hanno ridotta al Nulla. Preservando la forma verbale, ne hanno perduto lo spirito.
Attraverso le epoche l'uomo, nella sua mente non iniziata, ha degradato l'intuizione del proprio spirito, confondendo l'oggettivo e l'illusorio con il Reale, e, cosa che è ancora più grave per il proprio benessere morale e spirituale, estirpando l'anelito dell'intelletto dalla sua radice nell'Illimitato.
Non dimentichiamo che noi stessi siamo la progenie dell'Illimitato, e sollecitati dall'impellente energia del nostro spirito stiamo progredendo attraverso lotte interiori e prove — progredendo sempre verso il completamento finale del nostro sé spirituale con quel Prodigio senza limiti che è la nostra interiorità. Tuttavia, il più meraviglioso dei paradossi, questo Prodigio è raggiungibile per tutta l'eternità, perché è lo Spazio senza limiti e la Durata senza frontiere.
L'ILLIMITATO NELLE ANTICHE COSMOGONIE
In nessun luogo e popolo fu permesso di speculare oltre questi dèi manifestati. L'Unita illimitata ed infinita rimase per ogni nazione un suolo vergine proibito, non calpestato dal pensiero dell'uomo, inviolato da sterili speculazioni L'unico riferimento fatto ad esso era un conciso concetto della sua caratteristica diastolica e sistolica, della sua periodica espansione o dilatazione e della sua contrazione. Nell'Universo con tutte le sue incalcolabili miriadi di sistemi e mondi che spariscono e riappaiono nell'eternità, i poteri antropomorfici, o dèi, le loro Anime, dovevano sparire alla vista con i loro corpi: "il respiro che ritorna al seno eterno che li espira e li inspira" – dice il nostro Catechismo. . . .
In ogni Cosmogonia, dietro e al di sopra della divinità creatrice, vi è una divinità superiore, un progettista, un Architetto, di cui il Creatore non è che l'agente esecutore. E ancora più in alto, al di sopra e intorno, dentro e fuori, vi è l'inconoscibile e lo sconosciuto, la Sorgente e la Causa di tutte queste Emanazioni. (La Dottrina Segreta, II, 42-3 ed. or.; p. 30 online v.s. I. Cintamani.)
Molti sono i nomi che nelle antiche letterature sono stati dati alla Matrice dell'Essere da cui tutto emerge, in cui tutto è eterno, e nelle cui estensioni spirituali e divini alla fine tutto ritorna, sia l'entità infinitesimale che l'unità spaziale macrocosmica.
I tibetani chiamavano questo ineffabile mistero Tong-pa-nid, l'insondabile Abisso dei regni spirituali. I buddhisti della scuola Mahayana lo descrivono come Sunyata, la Vacuità, semplicemente perché nessuna immaginazione umana può raffigurarsi l'incomprensibile Pienezza che è. Nelle Edda dell'antica Scandinavia, l'Illimitato era chiamato con il suggestivo termine Ginnungagap, una parola che significa il vuoto che si spalanca o che non è circoscritto. La Bibbia ebraica afferma che la terra era informe e vuota, e le tenebre coprivano la faccia di Tehom, il Profondo, l'Abisso delle Acque, e quindi il grande Abisso dello Spazio cosmico. Ha lo stesso significato della Matrice dello Spazio com'è immaginata da altri popoli. Nella Qabbalah caldeo-ebraica la stessa idea è espressa dal termine 'Eyn (o Ain) Soph, il senza limiti. Nei racconti babilonesi del Genesi, è Mummu Tiamatu, che rappresenta il Grande Mare o Abisso. L'arcaica cosmologia caldea parla dell'Abisso sotto il nome di Ab Soo, il Padre o la sorgente della conoscenza, e nel primitivo Magismo era Zervan Akarana — nel suo significato originario di Spirito Illimitato invece della posteriore connotazione di Tempo Illimitato.
Nella cosmogonia cinese, Tsi-tsai, l'Auto-Esistente, è la Tenebra Sconosciuta, la radice del Wuliang-sheu, la Durata Illimitata. Il wu wei di Lao-tse, spesso travisato come passività e inazione, incarna un simile concetto. Nelle scritture sacre dei Quiche del Guatemala, il Popol Vuh o "Libro del Velo Azzurro," si fa riferimento al "vuoto che era l'immensità dei Cieli," e al "Grande mare dello Spazio." Gli antichi egiziani parlavano dell'Abisso Infinito; la stessa idea è incorporata anche nel Celi-Ced del Druidismo arcaico, poiché Ced è inteso come la "Vergine Nera" – il Caos – uno stato della materia prima della differenziazione manvantarica.
I Misteri Orfici insegnavano la Tenebra Tre Volte Sconosciuta, Cronos, su cui non si poteva affermare niente, se non la sua Durata senza tempo. Nelle scuole gnostiche, come ad esempio per Valentino, era Bythos, l'Abisso. In Grecia, le scuole di Democrito ed Epicureo postulavano To Kenon, il Vuoto; la stessa idea fu in seguito espressa da Leucippo e Diagora. Ma i due termini più comuni nella filosofia greca per l'Illimitato erano Apeiron, nel senso usato da Platone, da Anassimandro e Anassimene, e Apeira, com'era usato da Anassagora ed Aristotele. Entrambi i termini avevano il significato di espansione senza frontiere, che non ha alcun limite che la circoscrive.
Negli antichi scritti greci, Caos[4] era un altro termine usato per lo Spazio e come originariamente impiegato, ad esempio, da Esiodo nella sua Teogonia (116) – "Veramente, di fatto, il Caos era il primo di tutto" – aveva il significato del Vuoto. Anche l'alquanto ortodosso poeta Milton afferrò quest'idea nel suo "Infinito vuoto ed informe" (Paradiso Perduto, Libro iii). Comunque, con il passare del tempo, per la maggior parte dei pensatori letterati greci, Caos venne a significare uno stadio posteriore nell'evoluzione di qualsiasi particolare kosmo, e ciò corrisponderebbe ad un'altra frase usata da Milton, "La materia informe e vuota" (libro vii); perché qui abbiamo la materia già esistente attraverso l'espandersi primordiale nelle sue fasi primordiali o elementari. Sarebbe quindi analogo al Secondo Logos Cosmico della filosofia teosofica.
Tuttavia, il concetto primitivo di Caos era quella condizione quasi inconcepibile dello spazio kosmico o espansione kosmica, che per le menti umane è estensione infinita e vuota dell'Aether primordiale, uno stadio che precede la formazione dei mondi manifestati, e da cui nacque ogni cosa che è esistita dopo, inclusi gli dèi, gli uomini, e tutti gli eserciti celesti. Qui vediamo un'eco fedele dell'arcaica filosofia esoterica, perché in mezzo al Caos dei greci vi era la madre kosmica di Erebo e Nyx, Tenebra e Notte – due aspetti dello stesso stadio kosmico primordiale. Erebo era il lato spirituale o attivo, corrispondente al Brahman della filosofia hindu, e Nyx il lato passivo, corrispondente a pradhana o mulaprakriti, significando entrambi la natura-radice. Poi, da Erebo e Nyx, in quanto duali, nacquero Aether ed Emera, Spirito e Giorno – essendo qui lo Spirito, in questo stadio successivo, ancora il lato attivo, e il Giorno l'aspetto passivo, il lato sostanziale o veicolare. L'idea era proprio questa: come nel Giorno di Brahma della cosmogonia hindu le cose vennero in esistenza attiva manifestata, così nel Giorno kosmico dei greci le cose scaturirono dalla sostanza elementale in luce e attività manifestata, a causa dell'impulso dello Spirito kosmico.
I primi filosofi-iniziati erano estremamente reticenti, a motivo del loro voto di segretezza, a parlare degli inizi kosmici (o cosmici); e di conseguenza, pur essendo la letteratura arcaica dei greci, esattamente come tutte le altre letterature degli antichi popoli, piena di riferimenti ai primordiali inizi cosmici, questi sono velati da un linguaggio accuratamente protetto. C'era sempre il timore che insegnamenti così astratti e difficili potessero essere distorti e degradati se enunciati troppo apertamente, diventando proprietà comune di menti non allenate alla disciplina e agli insegnamenti dei Misteri. L'usuale malinteso che Caos significasse semplicemente confusione, o un disordinato e vasto aggregato di atomi nello spazio kosmico, è solo una degradazione dell'originale significato filosofico.
Quindi, abbiamo in primo luogo che Caos originariamente significava l'Illimitato; e, nel suo sviluppo posteriore, il concetto di Caos come la potente matrice della natura che evolve da se stessa i germi e i semi per formare e portare in esistenza i mondi. Questi semi erano le monadi dormienti delle caratteristiche spirituali e divine che venivano dal precedente periodo kosmico di manifestazione manvantarica, ed esistevano nel loro nirvana o paranirvana.
Il Caos, dunque, può essere considerato come un'espansione della sostanza-spirito, di cui ogni punto è un centro di coscienza o monade. Quest'espansione è avvolta nel riposo e nella beatitudine del paranirvana, aspettando il momento di risvegliarsi in un periodo di vita kosmica manifestata. La monade umana che riposa nella sua beatitudine devacianica è una precisa analogia sul proprio piano inferiore.
Da quanto detto prima, vediamo che il Caos era come lo stesso Brahman-pradhana nella sua condizione di pralaya kosmico, ed è quindi identico allo Spazio nel suo stato primordiale di sostanza-spirito a livello astratto.
Ė per questo che molti popoli consideravano il Divino non solo una Pienezza totale in se stessa, ma anche come l'Abisso infinito, il Vuoto illimitato, la Profondità senza fine, o l'oceano delle kosmiche Acque di Vita. L'Acqua era così il simbolo preferito dello Spazio a motivo della sua suggestività: è al tempo stesso traslucida, e tuttavia solida; è cristallina e tuttavia densa, diventando quindi un eccellente simbolo dell'Aether kosmico. Questo sublime concetto è stato universale fin dai primordi del pensiero cosciente dell'uomo sulla nostra terra in questa ronda, e sia che l'Adepto fosse Lemuriano, Atlantiano, Turaniano o Ariano, lo stesso concetto intuitivo guidò il pensiero di tutti loro.
LO SPAZIO, proclamato "un'idea astratta" ed un vuoto dagli scienziati moderni nella loro ignoranza e nella loro tendenza iconoclastica a distruggere ogni idea filosofica degli antichi, è, in realtà, il Contenitore e il corpo dell'Universo con i suoi Sette principi. È un corpo di estensione illimitata, i cui PRINCIPI, secondo la fraseologia occulta — ognuno essendo a sua volta un settenario — manifestano nel nostro mondo fenomenico soltanto la parte più grossolana delle loro suddivisioni. (La Dottrina Segreta, I, 342 ed. or.; p. 256 online. v. s. I. Cintamani.)
Nella visione dell'antica saggezza, lo Spazio è molto più di un mero contenitore, perché è essenza fondamentale, tutto ciò che è, e non solo il campo della vita illimitata e della mente sconfinata, ma effettivamente proprio il materiale della mente, della coscienza, e della vita.
Inoltre, lo Spazio è settuplice, decuplice, o dodecuplice, secondo il modo di vederlo: e proprio perché lo Spazio è la grande tela dell'infinito numero di gerarchie, è queste gerarchie stesse, dalle superdivine alle sottomateriali.[5] Essendo quindi lo Spazio molteplice, vi sono quelli che potremmo chiamare gli spazi dello Spazio: non solo i campi illimitati dello spazio fisico ma, d'importanza incomparabilmente più grande, i campi sconfinati dello Spazio interiore — lo Spazio interno, e ancora più all'interno. Lo Spazio, in breve, è ogni cosa, se considerato astrattamente; e proprio perché è ogni cosa che esiste, contiene tutti gli esseri, le entità e le cose minori, dentro la sua inglobante infinitudine, e in questo senso è davvero un contenitore.
Per approfondire: la nostra galassia in tutte le sue distese non solo è contenuta dentro il proprio spazio, ma è quello spazio stesso; ed essendo un'entità aggregata, ha il proprio swabhava, cioè la sua natura essenziale o individualità, o quella che potremmo chiamare anima kosmica. La nostra galassia è contenuta in un'unità kosmica di magnitudine ancora più vasta, che a sua volta ha il proprio swabhava. In direzione opposta, ogni galassia contiene molti sistemi solari, ciascuno dei quali è un'unità spaziale dentro i propri confini spaziali, cioè, è effettivamente lo spazio che occupa all'interno del più vasto spazio della galassia. Ugualmente così per un pianeta, come la nostra terra. Un pianeta occupa lo spazio all'interno di uno spazio più vasto del suo sistema solare, tuttavia è esso stesso lo spazio che in questo modo crea o forma dentro quel sistema solare.
Dal punto di vista umano, lo Spazio può essere considerato come il principio degli elementi più elevati di un cosmo nell'Illimitato. Qui vediamo un'altra ragione per cui lo Spazio è molto più di un contenitore di cose. Ha, è vero, il significato comune di distanza tra gli oggetti; ma, molto più importante, lo Spazio è la distanza o estensione verso l'interno e verso l'alto, verso lo spirito e oltre, nelle profondità abissali del Divino. Come ha scritto H.P.B., " . . . è nello spazio che dimorano le Potenze intelligenti che invisibilmente governano l'Universo." (La Dottrina Segreta, II, 502 ed. or.; p.331 online v. s. I. Cintamani).
Qualsiasi universo, o qualsiasi entità più piccola in esso, come un sole o un pianeta o un uomo, è un dio incarnato. Consideriamo l'uomo: un corpo fisico nella sua parte inferiore, e una monade divina, un dio, nella sua parte più elevata; e nel mezzo vi sono tutte le strutture intermedie ed invisibili della sua costituzione. Ed è proprio così per qualsiasi universo, sole, o pianeta. Andando un passo più in là, vediamo che lo spazio di qualsiasi universo è il 'corpo' visibile-invisibile di un tale universo. La sua essenza è divina, proprio come l'uomo è divino nella sua essenza, anche se è un essere fisico umano quando s'incarna sulla terra, o quando, analogamente, s'incarna su un altro globo della nostra catena planetaria.
Poiché lo Spazio, che è un'unità spaziale, è sia cosciente che sostanziale, possiamo vedere lo spazio di qualsiasi altro universo come un'entità — un dio. Essenzialmente, è un'entità divina della quale vediamo solo l'aspetto materiale ed energetico, dietro il quale ci sono la vita causale e l'intelligenza. C'è un numero infinito di tali 'spazi' nei campi sconfinati dell'Illimitato, ed ogni unità del genere è un Uovo di Brahma, più piccolo o più grande, cioè un cosmo, e tutti esistono all'interno, e fanno parte della struttura di uno Spazio incomprensibilmente più vasto che include tutto.
Ogni unità spaziale o entità celeste, come il nostro sistema solare o la nostra galassia o qualche unità kosmica ancora più grande, è un essere vivente, dotato di mente, con il proprio destino karmico, e quindi ripete su vasta scala ciò che noi ed altre unità più piccole rappresentiamo nelle nostre sfere microscopiche.
Lo Spazio, quindi, è contemporaneamente sia coscienza che sostanza, dappertutto. Ė, in verità, Coscienza-Mente-Sostanza. Poiché tutto lo spazio è vivente,[6] freme con un' attività incessante; in verità, ogni punto dello spazio infinito può essere veramente considerato come un centro di coscienza o monade, sia che queste monadi siano dinamicamente impegnate in attività manvantariche, oppure cristallizzate in una passività che attende l'arrivo del tocco magico dallo spirito interiore. Inoltre, ogni parte organica dello spazio, cioè ogni unità spaziale o entità cosmica, come un aggregato, si diversifica da tutte le altre a motivo del suo swabhava permanente o individualità caratterizzante.
Da quando H.P.B. cominciò a scrivere più o meno apertamente su alcuni aspetti esoterici degli insegnamenti teosofici, sono entrati in uso comune alcuni termini, per lo più presi dal linguaggio sanscrito, per descrivere Spazio, Aether, Etere, Pleroma, ecc. Tra questi, akasa — dalla radice verbale akas, che significa risplendere, illuminare, come la luce — è stato quello impiegato più frequentemente.[7] Essenzialmente è il 'corpo' spirituale ed etereo dello spazio cosmico manifestato, il sottile ed etereo 'fluido' cosmico che pervade ogni universo manifestato. Ė l'invisibile campo cosmico nel quale, e dal quale, sono generati tutti i corpi celesti, in cui essi esistono durante i loro rispettivi manvantara, e in cui nuovamente si raccolgono alla conclusione manvantarica.
Ora, poiché akasa è di tipo estremamente tenue o immateriale, abbastanza spesso è genericamente considerata come la vacuità dello spazio, cioè priva di materia; tuttavia, a dire il vero, akasa è realmente il corpo spaziale dell'universo, per cui è lo spazio stesso manifestato. Come i campi aggregati degli spazi di ogni Uovo di Brahma, sia una galassia o un sistema solare, akasa è il campo d'azione del fohat cosmico — la forza vitale dell'universo — ed è, come lui, guidata sempre dalla mente cosmica. Come tutte le altre cose della natura, akasa è divisibile in piani o gradi differenti, crescendo a livello etereo finché si fonde nel puro spirito kosmico. Le sue parti più elevate sono chiamate anima mundi, l'anima del nostro universo, proprio come i suoi campi più bassi comprendono la luce astrale. Come il termine latino spatium, akasa convoglia l'idea di estensione o profondità spaziali, ma da un punto di vista alquanto diverso questo termine è usato anche per aether ed etere. Nell'enumerazione dei sette principi cosmici o tattwa, akasa è calcolata come il quinto principio più elevato che, nel pensiero mistico dell'Europa medievale, era chiamato la quinta essentia — la 'quinta essenza' — la nostra parola quintessenza.
Ho usato questo termine, spazi dello Spazio, nella beata illusione che avrebbe aiutato gli altri a farsi un concetto ancora più grandioso della natura: che sia nello spazio concreto che in quello astratto non c'è nemmeno una punta d'ago priva di vita, sostanza, essere e coscienza. Per dirla in altri termini, nel nostro spazio fisico vi è uno spazio ancora più etereo, con i suoi mondi, soli e pianeti, comete e nebulose; globi celesti con le loro montagne e laghi, le loro foreste e campi, e i loro abitanti. All'interno del secondo spazio, vi è uno spazio ancora più etereo e più spirituale, la causa dei primi due, essendo ogni spazio una madre o un generatore dello spazio esterno; e così convogliamo questi spazi dentro spazi in avanti e verso l'alto e verso l'interno, all'infinito. Questo è ciò che intendo quando parlo degli spazi dello Spazio.
Vediamo ora perché tutto lo spazio — spazio infinito, spazio complesso, spazi dentro lo spazio — è pienezza, e non c'è alcun punto, interno o esterno, che sia vuoto. Lo spazio vuoto non è altro che un frammento d'ignoranza; non esiste. Dimentichiamo che questi spazi superiori o interni, lungi dall'essere non-esistenti, sono le radici cosmiche delle cose. Li definiamo vuoti perché non possiamo percepirli. E tuttavia, li udiamo veramente, li vediamo, li sentiamo, li tocchiamo per tutto il tempo, perché lo spazio intorno a noi è intasato da questi spazi interni, e questi spazi interni ci danno sostanza, vita, vitalità, movimento, morte, ogni cosa. E sono essi le cause, i noumeni; quelli esterni sono fenomenici, conseguenze.
In verità, in un certo senso, gli spazi dello Spazio sono i suoi sette, dieci o dodici principi. Questo è il motivo per cui H.P.B. dice che lo Spazio è la divinità massima, e tuttavia lo Spazio è tutto quello che è. Non significa che la divinità sia un ceppo o una pietra, e tuttavia quel ceppo e quella pietra non sono fuori dalla divinità. Vediamo che ci sono spazi all'interno di spazi, e che il ceppo o la pietra sono intasati da ripetizioni di loro stessi in piani interni e superiori. Tuttavia, il ceppo o la pietra non sono divinità perché non sono il tutto. Sono una porzione, una parte, e queste cose sono illusioni. Tagliamo questa porzione o parte in pezzi sempre più sottili, e arriveremo alla molecola, all'atomo, all'elettrone, e, in teoria, ad altri corpi ancora più sottili. Ma verrà il tempo in cui raggiungeremo quella che per noi è omogeneità, e che è lo spirito di quello spazio.
Possiamo usare i termini piani cosmici per questi spazi cosmici. Lo spazio cosmico in cui viviamo è prithivi, il piano cosmico. Ė un piano; è uno spazio. Sul piano successivo al disopra di noi, i corpi celesti e la nostra terra sono invisibili, e dove essi esistono, le entità vedranno ciò che per esse è spazio pieno, spazio vuoto. Gli abitanti di ciascun spazio o piano vedono ciò che il loro apparato sensoriale ha sviluppato ad afferrare e a portare alla loro mente percettiva.
Questo è quello che intendiamo per spazi dello Spazio, la pienezza dello spazio, o la vacuità dello Spazio, tutti modi diversi per esprimere la stessa meraviglia. Proprio qui ricordiamo l' insegnamento del Signore Buddha che l'essenza dell'Essere è Sunyata, una parola che significa vuoto, vacuità, ma che non ha mai inteso il nulla assoluto in senso fisico. Effettivamente è la pienezza totale; comunque, il nostro apparato sensoriale è del tutto incapace a comprenderlo, di conseguenza nega l'esistenza di un Tutto cosmico. Ma allora la nostra mente, che è a carattere molto più spirituale della materia grossolana dei nostri sensi fisici, penetra in diversi piani più elevati di quelli fisici e comincia a comprendere; e quindi, se possiamo fare un ulteriore passo elevandoci dalla nostra mente alla nostra intuizione, la nostra intuizione ci dirà chiaramente che questo cosiddetto Sunyata è solo vacuità per i sensi, ma pienezza per lo spirito — poiché Sunyata è veramente Spirito cosmico.
Vale la pena puntualizzare il vero significato dell'intuizione efficace ma incompleta che ha suggerito . . . l'uso della moderna espressione "la quarta dimensione dello Spazio." . . . La frase familiare non può essere considerata che un'abbreviazione della forma più completa, e cioè la "quarta dimensione della materia nello Spazio". Ma anche così, è pur sempre una frase infelice; perché, mentre è vero che il progresso dell'evoluzione può condurci alla conoscenza di nuove caratteristiche della materia, quelle che ci sono già familiari sono in realtà molto più numerose delle tre dimensioni. Le qualità o, per usare un termine più appropriato, le caratteristiche della materia, devono essere sempre in relazione diretta con i sensi dell'uomo. La materia è dotata di estensione, di colore, di movimento (moto molecolare), di gusto e di odorato, che corrispondono ai sensi esistenti nell'uomo; e la prossima caratteristica che essa svilupperà — chiamiamola per il momento Permeabilitá — corrisponderà al prossimo senso che possederà l’uomo e che possiamo denominare Chiaroveggenza Normale. Così, alcuni arditi pensatori, ricercando ansiosamente una quarta dimensione per spiegare il passaggio della materia attraverso la materia e della produzione di nodi su una corda senza fine, hanno sentito il bisogno di una sesta caratteristica della materia. In realtà, le tre dimensioni appartengono ad uno solo degli attributi o caratteristiche della materia: l'estensione; e il buon senso comune si ribella giustamente all'idea che, in una condizione qualsiasi, possano esservi altre dimensioni oltre a quelle tre già conosciute e cioè lunghezza, larghezza e spessore. Questi termini ed il vocabolo stesso "dimensione," appartengono tutti ad un solo piano di pensiero, ad un medesimo stadio di evoluzione, a una sola e medesima caratteristica della materia. Finché nelle risorse del Cosmo vi saranno delle regole pedestri da applicarsi alla materia, questa non potrà essere misurata che in tre sole maniere . . . Ma queste considerazioni non si oppongono affatto alla certezza che, con il trascorrere del tempo, le caratteristiche della materia si moltiplicheranno, contemporaneamente al moltiplicarsi delle facoltà umane. (La Dottrina Segreta, I, 251-2, ed. or.; p. 196 e seg. online v. s. I. Cintamani).
Dal punto di vista della filosofia esoterica, non è mai appropriato parlare di Spazio astratto che ha lunghezza, larghezza e spessore, perché queste dimensioni si applicano soltanto allo spazio manifestato. Per convenienza, si potrebbe descrivere che lo Spazio esiste in due forme: Spazio astratto, o l'Illimitato, e spazio manifestato, che equivale a dire spazio limitato — in altre parole, entità manifestate, sia composte come un sistema solare, oppure entità più piccole come un corpo umano o un atomo. Ė solo tra questi corpi spaziali manifestati, sia grandi che piccoli, che possiamo sinceramente parlare di dimensioni, perché queste significano distanza e direzione, come pure posizione e volume. Quindi, il nostro sistema solare è una porzione di spazio manifestato che esiste nello Spazio astratto dell'Illimitato.
Parlare di più di tre dimensioni dello spazio è semplicemente un cattivo uso dei termini, perché la dimensione significa misurazione, e si possono misurare soltanto le cose concrete. L'Infinito, ad esempio, non ha dimensioni perché non può essere misurato. Nondimeno, l'idea di una quarta, quinta o sesta dimensione è un'intuizione di mondi interni e superiori, cioè di direzioni e distanze all'interno, per così dire, delle sfere invisibili. Se il termine dimensione è ristretto solo a questo significato, allora non vi sarebbe alcuna particolare obiezione; ma, sfortunatamente, la scienza moderna e la filosofia non hanno ancora previsto la realtà di sfere e di mondi interni, invisibili alle sfere e ai mondi esterni. D'altro lato, la teoria e la speculazione scientifica, sotto certi aspetti, stanno diventando così metafisiche, che non solo cominciano, su certi punti, ad unificarsi con gli insegnamenti della filosofia esoterica, ma in alcuni casi partono proprio per la tangente.
Ad esempio, l'idea che l'universo sia in espansione, e che tutti i vari corpi celesti corrano vicendevolmente ad una velocità che aumenta direttamente in proporzione alla distanza da noi, è dovuta soprattutto ad Abbe Lemaitre, e sembra che questa teoria sia stata adottata nella sua totalità da Eddington, che pure è spesso intuitivo, come anche da altri pensatori scientifici. Comunque, vi sono parecchi motivi per rendere inaccettabile questo concetto di un universo in espansione. (Consulta The Esoteric Tradition, di G. de Purucker, 3rd & rev. ed., pp. 218-19)
A volte sembra che sia la scienza che la filosofia abbiano dimenticato che il mulino matematico produce solo ciò che vi è immesso: che qualunque cosa venga fuori da un'estremità della macina era stato immesso nell'estremità opposta. La matematica è uno strumento del pensiero umano, uno strumento intellettuale di immenso valore, ma ovviamente non può fabbricare la verità, né produrre da sé le verità.
L'Occultismo afferma che in tutte le cose sia grandi che piccole, un universo, un sole, un essere umano, o qualsiasi altra entità, vi sono secolari diastoli e sistoli cicliche, simili a quelle del cuore umano. Queste espansioni e contrazioni cicliche sono manifestazioni dei poli cosmici o ciò che potremmo forse chiamare pulsazioni universali; e l'astronomo Dutch e il fisico matematico Willem de Sitter sembrano aver afferrato qualche intuizione di questo fatto. Ma l'idea di un universo in espansione, che secondo Lemaitre è semplicemente la vasta espansione cosmica di un titanico atomo originale, è del tutto sbagliata.
Queste diastoli e sistoli cosmiche non hanno niente a che fare con l'Universo in espansione. La struttura o il corpo dell'universo, se con questo termine intendiamo la galassia o un aggregato di galassie, è stabile sia nella relativa struttura che nella forma per il periodo del suo manvantara — precisamente come lo è il cuore umano quando ha raggiunto la sua piena crescita e funzione.
Questi scienziati apparentemente ignorano il fatto che lo spazio è illimitato e, di conseguenza, se l'universo, secondo la loro teoria, è in continua espansione, le nebulose ed altri corpi celesti che irrompono lontano da noi alla fine raggiungeranno una velocità incomparabilmente più grande della luce. Tuttavia, secondo la stessa teoria scientifica moderna, e le speculazioni sulla relatività complessiva di Einstein, questo è impossibile!
Basta solo un po' di riflessione per realizzare che è assolutamente impossibile pensare allo spazio separato dal tempo, o al tempo, o piuttosto alla durata come esistente separatamente dallo spazio, perché, se non vi fosse il tempo connesso allo spazio, lo spazio non potrebbe esistere nemmeno per due istanti consecutivi; e ugualmente il tempo esiste solo a causa dello spazio continuo che porta in esistenza il tempo: e parimenti, ancora, la mente kosmica non solo riempie lo spazio ma è spazio e tempo; e poiché la mente kosmica è, ed è incessantemente attraverso la durata eterna, ne consegue che esiste nella durata eterna, la quale durata è essa stessa.
Seguendo questa linea di pensiero, comprendiamo anche che la mente astratta o coscienza, o ciò che a volte è chiamato spirito o divinità, deve avere tempo e durata per continuare, e deve avere lo spazio in cui essere. Poiché non possiamo avere tre infiniti, vale a dire: mente kosmica, spazio kosmico, e durata senza fine, perché questa sarebbe una mostruosità logica, quindi queste non sono tre cose separate e distinte nella loro essenza, ma sono semplicemente tre aspetti di una Realtà sottostante che perdura per sempre.
Vediamo allora che la mente o coscienza, la durata o il tempo astratto, e lo spazio, sono fondamentalmente uno; ma a causa dei limiti imposti dall'evoluzione degli esseri e delle entità che, durante la manifestazione, sono tutti relativi, abbiamo le apparenze o maya — o, piuttosto, mahamaya — della durata che s'interrompe in periodi di tempo; lo spazio astratto diviso in unità spaziali; e ugualmente la mente kosmica o coscienza, che si esprime in fiumi di menti minori o esseri coscienti, che vanno dalle entità più elevate del divino alle più materiali nei mondi della materia. Sono queste divisioni illusorie o fiumi di vite che si manifestano per realizzare le diversità e la mirabile varietà che ci circonda, e producono quindi in noi la maya o l'illusione che il tempo che scorre è una cosa, che lo spazio è qualcosa del tutto differente, e che pure la coscienza è essenzialmente diversa.
Ė così che la durata è identica sia allo spazio che alla mente kosmica. Tuttavia, anche questo mistero dei misteri, Spazio-Mente-Durata, è il prodotto o l'apparenza, per il nostro intelletto più elevato, di quell'ineffabile Mistero chiamato l'Innominato o Quello. Vediamo ugualmente che passato e futuro, se compresi appropriatamente, si dissolvono insieme nell'"eterno Presente."
H.P.B., nella sua Dottrina Segreta fa questa notevole affermazione sul tempo:
Il Tempo non è che un'illusione prodotta dalla successione dei nostri stati di coscienza mentre viaggiamo attraverso l'Eterna Durata, e non esiste se non esiste una coscienza in cui possa essere prodotta l'illusione, ma "giace dormiente." Il Presente non è che una linea matematica che separa quella parte dell'Eterna Durata, alla quale diamo il nome di Futuro, da quella che chiamiamo il Passato. Niente sulla terra ha una durata reale, perché niente rimane senza cambiamento — o nel medesimo stato — durante la miliardesima parte di un secondo; e la sensazione che abbiamo dell'effettività della divisione del Tempo, conosciuto come Presente, deriva dall'impressione confusa di quella visione momentanea, o successione di impressioni, che le cose ci danno attraverso i nostri sensi, mentre passano dalla regione degli ideali, che noi chiamiamo Futuro, a quella delle memorie a cui diamo il nome di Passato. Allo stesso modo proviamo una sensazione di durata nel caso della scintilla elettrica istantanea, in seguito all'impressione oscura e continua provocata sulla retina. L'individuo, o l'oggetto reale, non consiste soltanto in ciò che vediamo in un dato momento, ma è composto dalla somma di tutte le sue condizioni varie e mutevoli, dal suo apparire nella forma materiale fino alla sua sparizione dalla terra. Sono queste "somme totali" che esistono dall'eternità nel Futuro, e passano gradatamente attraverso la materia per esistere eternamente nel Passato. (D. S., I, 37 ed. or.; p. 52 online v. s. I. Cintamani,)
Più avanti, H.P.B. afferma:
La saggezza arcaica divide la Durata illimitata in Tempo incondizionato, eterno ed universale, e in Tempo condizionato (Khandakala). L'uno è l'astrazione o noumeno del Tempo infinito (Kala); l'altro, il fenomeno che appare periodicamente come effetto di Mahat, l'Intelligenza Universale limitata dalla durata manvantarica. (I, 62 ed. or.; p. 70 online v. s. I. Cintamani)
Può essere d'aiuto realizzare che khandakala è un termine composto che in Sanscrito significa tempo interrotto, vale a dire che la durata nell'universo manifestato appare come interrotta in periodi di tempo, sia lunghi che brevi. Così un anno è 'un'interruzione' del tempo astratto in un periodo di tempo di circa 365 giorni. Poiché gli anni si susseguono l'un l'altro, producono l'effetto mayavico di un'entità che noi chiamiamo tempo in continuo scorrimento; tuttavia, a causa della loro natura ciclica, essi ci danno l'impressione che il tempo si manifesti in maniera divisa o interrotta, anche se in se stesso è indiviso. L'unico aspetto sbagliato di questo concetto è che il tempo è visto come una cosa di per sé, e diverso dallo spazio e dalla mente in cui questi periodi di tempo appaiono.
Il continuum spazio-temporale è una frase originariamente dovuta al genio matematico e filosofico di Einstein. Mentre non è sempre facile stabilire esattamente cosa significhi, perché le opinioni dei matematici stessi sembrano variare grandemente, l'idea generale è chiara: spazio e tempo non sono due valori assoluti separati e distinti, ma sono due aspetti della sola e fondamentale entità. Ciò che manca, comunque, è il concetto più grandioso che sia spazio che tempo, come fattori coordinati in manifestazione, sono soltanto la risultante di spirito-sostanza; ma alcuni filosofi scientifici, come Sir James Jeans, hanno l'intuizione che il continuum spazio-temporale è, in qualche modo misterioso, coinvolto con la mente cosmica.
Sebbene mente cosmica, tempo, e spazio, siano un tutt'uno, appaiono come tre entità diverse durante il manvantara kosmico, e quest'apparente divisione dell'Uno nei tre è quella che la filosofia arcaica chiama mahamaya. Come abbiamo appena detto, ciò di cui ha bisogno il continuum spazio-temporale è di riconoscere che spazio-tempo è identico alla coscienza kosmica, o mente kosmica, ed è ugualmente così per la sostanza kosmica. Riuniteli in una sola Realtà unificata e fondamentale, e avrete l'idea in una miniatura. Il continuum spazio-temporale non è che un primo esitante passo verso la verità, un'intuizione simile all'insegnamento arcaico che, quando tutti gli universi manifestati si ritirano nella loro primordiale condizione superspirituale, i molti rientrano nell'Uno. La manifestazione si dissolve nella primordiale omogeneità spirituale, cosicché non sparisce solo lo spazio manifestato e il tempo ha ugualmente fine insieme al suo alter ego, lo spazio, ma anche la mente kosmica rientra nello spirito kosmico, e quindi svanisce.
Nelle parole della Chandogya-Upanishad (I, 9, 1):
"A che cosa ritorna questo mondo?"
"Allo spazio (akasa)," egli disse. "In verità, tutte le cose qui sorgono dallo spazio. Spariscono nello spazio, perché solo lo spazio è più grande di loro; lo spazio è la meta finale."
Quando Brahman espira l'universo, è il fluire del Grande Soffio, che a quel punto diventa immediatamente Brahma; il manvantara kosmico (o cosmico) è il termine della vita di Brahma. Quando sopraggiunge il termine di questa vita, allora Brahma rientra nella propria essenza spirituale o Brahman, e tutto lo spazio manifestato svanisce nello Spazio astratto o potenziale, e questo è il ritirarsi del Grande Soffio, cioè l'inizio del pralaya kosmico.
L'Universo, con tutto ciò che contiene, è chiamato Maya, poiché tutto quanto vi è in esso è temporaneo, dalla vita effimera della lucciola a quella del sole. Paragonato all'eterna immutabilità dell'Uno e all'invariabilità di quel Principio, l'Universo, con le sue forme evanescenti e continuamente mutevoli, deve necessariamente apparire, alla mente di un filosofo, simile ad un fuoco fatuo. Ciò nonostante, l'Universo è abbastanza reale per gli esseri coscienti che lo popolano, e che sono altrettanto irreali come l'universo stesso. (La Dottrina Segreta, I, 274 ed. or.; p. 211 online v. s. I. Cintamani)
Un pensiero difficile da afferrare è il rapporto di Maya o, cosmicamente parlando, mahamaya, con lo Spazio e con quella Realtà che identifichiamo spesso in Parabrahman. Il termine Parabrahman è impiegato in due sensi: il primo significa oltre Brahman, implicando che qualsiasi cosa nello Spazio illimitato è oltre il Brahman, vale a dire la gerarchia più elevata della nostra galassia o universo; e l'altro senso, molto meno frequente perché realmente meno accurato, considera che Parabrahman è l'origine innominata ed invisibile o il vertice di ciò che gli uomini, nei loro sforzi di comprendere l'incomprensibile, chiamano la Divinità.
Quindi, Parabrahman non è un'entità. Un'entità, non importa quanto sia immensa, implica una limitazione. Il Parabrahman Illimitato non ha inizio né fine, è Spazio imperituro — spazio interno come pure esterno. In breve, è la continuazione infinita della vita cosmica, il Tat cosmico — Quello.
Ad esempio, un'entità che dimora in un elettrone di un atomo del mio corpo potrebbe considerare come un'eternità il passaggio del tempo composto da un secondo umano, e tutto quello che è fuori da quel secondo, per questo abitante dell'atomo, sarebbe Parabrahman. Il punto di coscienza che quest'entità potrebbe aver evoluto sarebbe tale che penserebbe all'atomo come al suo universo. Ma pensate alla moltitudine di atomi contenuti dentro una porzione di spazio che potrebbe essere coperto dalla punta di uno spillo! L'esistenza fisica dell'area sottile di materia coperta dalla punta di uno spillo, per un simile abitante di un elettrone sarebbe lo spazio illimitato. Noi siamo proprio questi abitanti-elettroni di un mondo più vasto, ed ecco perché chiamiamo Parabrahman — sia in senso spaziale che qualitativo — tutto ciò che è oltre la portata della nostra coscienza spirituale. Quello è per noi Parabrahman.
In un senso molto realistico, possiamo considerare Parabrahman identico allo Spazio astratto. Questo Parabrahman-spazio non solo è l'aggregato di gerarchie di intelligenze e coscienze in tutto l'universo, ma è ugualmente tutti i loro campi d'attività nell'Esistenza senza frontiere. Per contrasto, il lato mulaprakritico dell'Illimitato, che è la sostanzialità divino-spirituale dell'essere senza limiti, fornisce i veicoli delle gerarchie delle intelligenze divine, ed è quindi chiamato mahamaya o grande illusione, perché tutti questi veicoli sono compositi e transitori.
Ė ovvio che la maya del vasto aggregato di universi galattici sparsi sui campi dell'Illimitato non significa illusorietà assoluta, nel senso di qualcosa che non ha un'esistenza reale. Significa, comunque, qualcosa, grande o piccola, dalla vita lunga o breve, che paragonata con l'eternità è transitoria, limitata nella durata, mutevole, e presenta quindi tutti gli aspetti e attributi di un'esistenza mutevole ed instabile — anche se, naturalmente, vi sono maya che durano per periodi di tempo così lunghi, che a noi appaiono quasi come un'eternità.
L'unica Realtà è Parabrahman, il grande fondamentale; ma, anche se tutto il resto, tutto quello che è inferiore, è maya, tuttavia quella maya è ancora l'universo in cui esiste la nostra costituzione – proprio come noi siamo intimamente legati a Parabrahman; e poiché Parabrahman è il Tutto, ne consegue che persino maya è il suo rivestimento, o manifestazione. Mulaprakriti, la radice della natura, circonda Parabrahman, per così dire, come la coscienza umana circonda la coscienza spirituale dell'uomo. Nella costituzione propria dell'uomo, l'essenza monadica è l'unica sua parte reale; però attualmente è concentrata nel suo lato umano, ed è suo dovere innalzare questa parte di se stesso in un'unione cosciente con il Parabrahman, l'essenza monadica interiore.
Nelle antiche letterature veniva usato un linguaggio figurativo che, se non cerchiamo il suo significato intimo, è propenso a distrarre la nostra attenzione dagli elementi essenziali. Ad esempio, è stato detto che l'Illimitato "porta l'Universo nello sport, come in una partita"; egli si muove, e allora l'universo appare. Queste frasi non sono che metafore, suggestive e belle se comprendiamo la verità dietro di esse. L'espressione che Brahman evolve l'universo come una partita, trasmette la verità che Brahman è la Realtà essenziale, e che tutto il resto dell'universo che evolve attraverso le epoche cosmiche è come una fantasmagoria che aleggia davanti all'occhio del Divino.
Maya, quindi, non significa che il mondo esteriore, com'è visto dalla coscienza centrale interiore, sia non-esistente, perché lo stesso mondo esteriore è incluso nella Realtà di Parabrahman che tutto racchiude. Se non fosse così, avremmo Parabrahman da un lato, e maya dall'altro, formando due energie opposte e conflittuali, o essenze, e questo è impossibile perché Parabrahman è il Tutto.
Maya, in verità, esiste; ma poiché Parabrahman è ogni cosa, il suo Essere essenziale o Esseità, ne consegue che anche Maya è inclusa nella sua essenza. Questo è il vero nucleo dell'insegnamento dell'Adwaita-Vedanta, come l'ha esposto Sankaracharya. Noi, come esseri, siamo mayavici, ma il nucleo del nostro cuore è Parabrahman.; e quindi ogni atomo di questi rivestimenti mayavici che ci ricoprono è il proprio elemento o essenza di base, che è anche il Parabrahman.
Così vediamo che il vero insegnamento riguardante maya non significa che l'universo sia illusorio, nel senso di essere non-esistente, ma semplicemente che per noi, come per altre entità in altri universi, la Realtà è il Parabrahman nel tempio del Sé illimitato, cioè la nostra essenza più profonda.
L'universo, sia visibile che invisibile, è costituito di gerarchie, di gruppi interconnessi di entità che vivono e lavorano insieme, seguendo un destino karmico che è più o meno lo stesso per tutti. Questa regola di strutture gerarchiche si estende attraverso l'infinitudine cosmica. Mentre una gerarchia dell'Illimitato è evoluta all'interno della Divinità, quasi pronta a passare nel Grande Oltre — Parabrahman — per cominciare un nuovo corso d'evoluzione su un piano superiore in qualche futuro periodo cosmico, in qualche altra parte dell'Illimitato una nuova gerarchia sta venendo in esistenza. E ciò si applica non solo ai pianeti ma ai soli, ai sistemi solari, alle galassie o universi. La Natura si ripete dappertutto, anche se fa risuonare i cambiamenti in modo sbalorditivo per quel che riguarda i dettagli. Sono questi cambiamenti e dettagli che creano la maya dell'universo. L'essenza di ogni cosa è amore sconfinato, armonia, saggezza e coscienza senza limiti: questo è il cuore di ogni entità individuale — non importa dove, non importa quando — il vertice della sua gerarchia che per lui è il suo Brahman.
Questi Brahman sono semplicemente di numero infinito, e tutti variano nelle proprie caratteristiche, e all'ombra della coscienza o individualità. Sono queste illimitate variazioni che creano la maya cosmica; tuttavia, tutte insieme, considerate come il Tutto, e specialmente nella loro parte più elevata, sono tecnicamente raggruppate insieme come Quello. Questo mistero non può essere descritto con parole umane. Chiamarlo Dio è assurdo, perché l'universo è pieno di déi. Ogni uomo, nel suo intimo, è un dio. Ogni atomo, nel nucleo del suo cuore, è un dio. Ogni sole nello spazio non è che la manifestazione fisica di un dio; e ciascuno di noi, tra eoni remoti, evolverà per essere un tale sole. Questo non si ottiene accrescendo dentro di noi briciole di esperienza, briciole di coscienza o di intelligenza, secondo l'errata idea di Darwin, ma evolvendo ciò che già è il Parabrahman interiore. Questo è quanto Gesù intendeva quando parlava di se stesso e di suo Padre nel cielo come uno.
Vi sono sicuramente due aspetti di Brahma: quello con forma e quello senza forma. Ora, quello che è con forma è irreale; quello che è senza forma è reale, è Brahma, è luce. Quella luce è la stessa del sole. (Maitri-Upanishad, VI, 3)
In teosofia, come pure nell'Adwaita-Vedanta, Parabrahman e mulaprakriti, il suo velo cosmico, due aspetti o elementi di un solo concetto fondamentale — spesso significano l'espansione illimitata sia dello spazio che del tempo oltre il Brahman e pradhana, il suo velo del nostro universo. Ora è sbagliato considerare Parabrahman come un'entità, per quanto vasta o sublime, perché un'entità di qualsiasi magnitudine è de facto limitata, e Parabrahman significa 'oltre' Brahman, e Brahman è l'Assoluto, la gerarchia di un universo, in altre parole, la suprema entità divino-spirituale di un universo o cosmo. Così, Parabrahman non è un'entità; è Infinitudine, Quello, l'incomprensibile Tutto, che con i suoi campi sconfinati è oltre la portata della coscienza sia umana che divina.
L'Assoluto è un termine relativo. Ė l'Uno filosofico, l'Originatore cosmico: dall'Uno deriva il Due; dal Due la Triade; dalla Triade il Quaternario cosmico, che attraverso l'evoluzione emanativa si frammenta ancora nella molteplicità manifestata della differenziazione. Uno, quindi, è l'Assoluto cosmico; ma non è lo Zero mistico che rappresenta l'Infinitudine. Di conseguenza, lo Zero contiene, a causa della sua Infinitudine, un numero infinito di Uni cosmici, o monadi cosmiche, e la moltitudine di monadi minori che sono derivati di qualche simile Uno cosmico. Non vi sono Assoluti nel senso di Infinitudini.
Ogni essere o cosa, non importa quanto sia grande, è relativo — in relazione a qualcosa d'altro e a tutto il resto. Ogni Assoluto è la gerarchia della propria gerarchia, l'Uno da cui emanano tutte le successive emanazioni fino al limite di quella gerarchia. Ogni simile Assoluto è un jivanmukta cosmico, cioè un'entità che ha raggiunto una condizione di affrancamento relativamente perfetta — il moksha o mukti del Brahmanesimo, e il termine latino absolutum, che significa sia liberato, che libero dalla sottomissione a tutti i piani inferiori, perché padrone o originatore di ciò. Così l'Assoluto è la divinità suprema o il Guardiano Silenzioso della Gerarchia della Compassione che forma il lato luminoso di un universo o gerarchia cosmica.
Vi è un'enorme differenza tra il jivanmukta cosmico, che è un Assoluto, un 'liberato' cosmico — e Quello. Se chiamiamo impropriamente L'Infinito come Assoluto, immediatamente creiamo l'immagine mentale di un Essere finito, per quanto elevato. Ė filosoficamente impossibile asserire l'Assolutezza dell'Infinito. L'Infinito non è assoluto e nemmeno non-assoluto; assoluto è un aggettivo che connota determinati attributi logici, e quindi implica una limitazione. Nessuno di questi simili attributi può essere applicato all'Infinito; esso non è né cosciente né incosciente, perché questi attributi umani, e altri simili, appartengono ad esseri e cose manifestati, e quindi non-infiniti.
Il cattivo uso del termine Assoluto derivò dalla psicologia cristiana di un Dio personale, una Persona infinita, che i filosofi europei non potevano scrollarsi di dosso. Perseguirono una serie logica di pensiero, che nasceva in una propria concezione; ma il termine che usarono è sbagliato. Una persona non può essere infinita: questa è una contraddizione di termini. Sebbene possa esserci una persona assoluta, il vertice di una gerarchia, questa gerarchia è solo una di un numero sconfinato di gerarchie; ma l'Infinito, senza numero, attributo, qualificazione o forma, è non-assoluto. Questo colpisce alle radici le antiche superstizioni teologiche e filosofiche. Sebbene H.P.B. abbia frequentemente usato la parola Assoluto nel suo errato significato comune, era profondamente consapevole del suo uso appropriatamente grammatico e logico. Nel suo Glossario Teosofico, alla voce 'Assolutezza' scrive:
Quando è riferita al Principio Universale denota un sostantivo astratto, che è molto più corretto e logico dell'aggettivo "assoluto" per tutto ciò che non ha né attributi né limitazioni, né può esso averne qualcuno.
Riguardo mulaprakriti, è un termine composto sanscrito, che contiene mula, radice, e prakriti, natura: quindi significa la natura elementale o originaria. Ė l'altro aspetto di Parabrahman, ma in particolare è la materia-radice di ogni sistema gerarchico.
Un universo è entrambi; nella sua essenza è mulaprakriti come pure Parabrahman, perché è formato da schiere di monadi individuali. Il cuore di una monade è lo Spazio sconfinato; e lo Spazio sconfinato ha due aspetti, vita o energia, e sostanza o forma. Non possiamo separare l'uno dall'altro.
La vita o energia è ciò che possiamo chiamare Parabrahman; il lato della sostanza o lato veicolare è mulaprakriti. Eliminiamo mulaprakriti, se fosse possibile, e non lo è, e avremmo coscienza pura, energia pura; e nemmeno questo è possibile, perché energia e materia sono due aspetti della stessa cosa, come lo sono forza e sostanza. L'elettricità, ad esempio, è sia energetica che sostanziale; la coscienza è sia energia che sostanza.
Il nostro corpo è fondamentalmente mulaprakriti, la sostanza-radice, l'essenza basilare, che si manifesta nella forma. Così sono tutte le cose, dappertutto — una stella, un pezzo di legno, una pietra, una bestia, una piuma che volteggia nell'aria. La sua essenza è mulaprakriti; e negli spazi abissali è mulaprakriti, ma anche Parabrahman.
In queste due parole, Parabrahman e mulaprakriti, troviamo un concetto completamente diverso da quello occidentale, che è una vaga astrazione mentale di un Infinito che significa solo una negazione — non-finito. Tutto quello che la coscienza umana è in grado di postulare è che Parabrahman è esattamente ciò che vediamo intorno a noi — nella misura in cui i nostri sensi fisici lo possono interpretare — ma illimitatamente così. Parabrahman, quindi, non è un'entità; come termine, è un aggettivo descrittivo trasformato in sostantivo, e significa semplicemente oltre Brahman. "Come in alto, così in basso" — e qui non vi è alcuna differenza essenziale tra l'alto e il basso. Ogni atomo ha la sua dimora in un corpo più grande; il corpo più grande, in questo caso la nostra terra, ha il suo habitat nell'etere solare; il sistema solare ha la sua dimora nella galassia; la galassia ha la sua dimora nell'universo; l'universo in un universo più vasto; e così via, all'infinito. E questo "all'infinito" è il nostro modo per descrivere Parabrahman — con questa profonda e radicale differenza, comunque, che l'idea basilare sono i mondi interiori, invisibili, spirituali, che il pensiero occidentale ignora quasi del tutto.
Ogni cosa esiste in qualcosa di ancora più grande, e contiene eserciti di esseri inferiori a se stessa. Quando H. P. Blavatsky chiamava Parabrahman lo Spazio, non intendeva la vacuità, ma lo utilizzava in modo molto simile a quando definiva la Durata. Proprio come la Durata è riempita da tempo, momenti, istanti di tempo, così lo Spazio è pieno di monadi manifestate, e di Assoluto, che sono le monadi di gran lunga più avanzate, che contengono eserciti e schiere di monadi inferiori in evoluzione.
Questo è tutto quello che significa Parabrahman, e mulaprakriti non è che l'altro suo aspetto — il lato dell'espansione e del cambiamento. Possiamo dire che Parabrahman è l'aspetto della coscienza, e mulaprakriti l'aspetto dello spazio. Parabrahman non è un tipo di dio. Ė semplicemente lo Spazio. Come la parola infinito, è un termine puramente generalizzante, un'ammissione che qui la coscienza umana si ferma. Il termine Illimitato è come un contatore verbale. Questo stesso Illimitato è completamente pieno di cose ed esseri finiti e limitati. Usiamo questi termini che sono astrazioni pure come se fossero realtà concrete, e creiamo dei pensieri su di essi, e quindi imbrogliamo noi stessi.
Ogni cosa — persino ciò che chiamiamo Quello — è contenuta in qualcosa di più grande. Ma il termine Quello è tuttavia sufficiente per includere l'intera portata di questo concetto. Una galassia è una cellula cosmica; e quelli che sono chiamati universi-isole sono altre cellule cosmiche; e queste cellule cosmiche sono immerse nell'etere galattico e unite in qualche incomprensibile Essere ultracosmico. Così anche le cellule di un corpo umano, per quanto al microscopio appaiano separate l'una dall'altra, sono unite per formare quel corpo, che a sua volta vive in un mondo.
Cito, perché è un'esposizione scientifica dello stesso concetto, due passaggi da Consider the Heavens (1935), del noto astronomo americano dr. Forest Ray Moulton:
Le unità essenziali di cui siamo composti sono molecole e catene di molecole. I processi della nostra vita sono espressi nei termini delle loro proprietà, i nostri pensieri condizionati dalle loro interazioni. Ma forse nell'infinita serie di unità cosmiche ve ne sono altre che ricoprono il ruolo di molecole in organismi viventi. Gli elettroni secondari del centesimo ordine potrebbero essere le molecole, per così dire, di esseri coscienti che vivono attraverso un milione di generazioni in ciò che per noi è un secondo di tempo. E le supergalassie del centesimo ordine potrebbero essere ugualmente le molecole di esseri coscienti i cui cicli di vita consumano inimmaginabili intervalli di tempo. Ad ogni modo, sarebbe per noi ingiustificabile, nella nostra ignoranza, affermare che ci sia vita solo sul nostro piano, fuori dalle possibilità infinite. (p. 300)
Ancora una volta dobbiamo presumere che l'esistenza di esseri intelligenti i cui elementi costituenti — i cui atomi, per così dire — sono galassie di supergalassie di stelle. I loro cicli di vita sono misurati in milioni e miliardi di anni, perché si richiedono tali periodi di tempo per le importanti trasformazioni delle galassie di ordine superiore, che per questi esseri sono soltanto le cellule dei loro corpi o i globuli del sangue che circola nelle loro vene. Quando respirano, sono esalati dalle loro narici torrenti di supergalassie; quando il loro cuore batte, le galassie di miliardi di anni luce sono in preda a convulsioni. Per questi esseri, le galassie che noi conosciamo sono solo elettroni o fotoni, le cui espansioni e contrazioni gravitazionali e le cui oscillazioni nella forma sono espresse vagamente in pacchetti d'onda. Ai loro organi dei sensi grossolani queste minute unità fisiche come le galassie non hanno locazioni o movimenti precisamente definibili, anche se queste entità persistono e possiedono una proprietà quantitativa. Per loro, le galassie sono le unità elementari primarie in un caos, fuori dal quale, da una comune statistica, emerge un grado considerevole di ordine nelle supergalassie. (p. 330)
Quindi, riassumendo, Parabrahman e mulaprakriti significano semplicemente Spazio illimitato con tutte le sue schiere di esseri che vi dimorano. In qualche suo punto particolare potrebbe scaturire in manifestazione un logos dal suo pralaya, qui, là, o in qualsiasi parte: milioni di questi logos potrebbero contemporaneamente esplodere in nuovi manvantara, e altri milioni potrebbero entrare nei loro rispettivi pralaya.
L'evoluzione cosmica e il suo inizio è stata generalmente descritta nelle antiche cosmogonie come "In principio era Quello"; e questo principio non significa l'avvio assoluto di tutta l'Infinitudine, il che è assurdo, ma uno degli inizi di un sistema nella Durata illimitata. In questo inizio del tempo scaturisce il logos, e per logos s'intende uno di tali innumerevoli punti monadici in Quello; e da questo solo logos evolve una gerarchia — che sia una gerarchia cosmica o un sistema solare, un essere umano o un atomo. E questi punti logoici sono sconfinati, poiché ogni punto matematico nello spazio è un logos potenziale.
Dentro e intorno a tutte queste manifestazioni dei logos cosmici o universi, giace quel mistero dei misteri di cui i saggi arcaici, nella loro venerazione, raramente parlavano, se non con delle allusioni, e che i rishi vedici dell'antica India chiamavano Tat. Questo è l'Innominato, che va ben oltre l'intuizione degli dèi supremi in tutti gli universi manifestati, perché è oltre la comprensione umana. Ė Infinitudine senza frontiere, Durata senza origine né fine, e la Vita completamente incomprensibile che è per sempre.
O Brahman, questa terra e le altre cose dell'universo hanno la mente come loro substrato, e in nessun momento esistono separatamente dalla mente. Quasi tutte le persone di questo mondo, camminando sul sentiero di questo universo di sogni, illusioni ed egoismo, lo considerano come vero e se ne dilettano. Ė solo in Chitta (la mente adatta) che sta l'universo . . . Veramente mirabili sono gli effetti, cioè le manifestazioni della mente, come l'analogia del corvo e i frutti della palma da datteri. Così, diverse persone vedono quel sogno (dell'universo) in vari modi. Con uno sport, molti ragazzi si divertono in diversi modi. (Laghu-Yoga-Vasishtha, V, 5)
MAYA o ILLUSIONE non significa inganno, nell'uso popolare di questo termine, con il significato di qualcosa che non esiste. L'illusione intorno e dentro di noi è 'reale,' nel senso che esiste concretamente; la nostra maya o illusione nasce dal fatto che non vediamo, e spesso rifiutiamo volontariamente di vedere, le cose come esse sono, e così cadiamo sotto il gioco illusorio delle nostre confuse facoltà interiori. Ad esempio, l'estremista di qualsiasi tipo, per quanto sincero possa essere, è intrappolato nella rete dei propri fraintendimenti.
Questo fatto, di per sé, ha un immenso significato morale, perché ci insegna ad essere benevoli verso gli altri, riconoscendo la nostra debolezza a comprendere, e anche i nostri forti pregiudizi e tendenze a vedere le cose come attraverso uno specchio scuro. Gli scienziati di circa un secolo fa, che avevano idee sull'universo fisico che oggi abbiamo provato quanto fossero errate, e che erano del tutto fanatici nel pensare di aver raggiunto la verità, erano sotto la maya della loro epoca, una maya provocata anche dalla loro imperfetta visione. Anche i religiosi, che sostenevano insegnamenti teologici che l'accresciuta conoscenza di oggi ha dimostrato falsi o veri solo in parte, lavoravano sotto una simile maya. I materialisti dicevano che l'uomo fosse una nullità, soltanto un meccanismo animato, e anche loro erano sotto il dominio dell'illusione, come lo erano i religiosi che pensavano che nel Giorno del Giudizio "un crepitio d'ossa volasse da ogni parte del cielo," come cantava il rispettabile dr. Watts.
Noi tessiamo, forse con la massima convinzione mentale ed emotiva, molti tipi di tele illusorie di pensiero e sentimento, e per un po' siamo convinti di essere nel giusto, ma in seguito, quando l'esperienza ci ha insegnato di più, comprendiamo che eravamo soltanto schiavi della maya delle nostre false immaginazioni. Alcune delle teorie scientifiche così seriamente propagandate oggi sono tanto mayaviche quanto qualsiasi cosa che potremmo citare dagli annali della storia; ma fintanto che queste illusioni durano, sia quelle scientifiche che filosofiche o teologiche, o di qualche altro tipo, sono relativamente reali per chi le sostiene.
La dottrina di maya è insegnata, in una forma o nell'altra, praticamente da ciascuna delle grandi scuole religiose e filosofiche dell'Hindustan antico e moderno, ed è particolarmente notevole nell'Adwaita-Vedanta. Ė come una caratteristica del Buddhismo — più marcata oggi nelle Scuole settentrionali del Mahayana, che nel Buddhismo meridionale dell'Hinayana.[8]
Il termine Maya deriva dalla radice verbale ma, misurare, fissare limiti e confini; e, per estensione, significa limitazione, carattere transitorio, e qualsiasi cosa che non dura. Così qui vediamo più o meno la stessa distinzione che spesso prevale in determinate scuole europee di filosofia tra ciò che è, il Reale, e ciò che semplicemente esiste, o quello che presenta un'apparenza fenomenica. Ė un piccolo passo da queste idee generali verso la realizzazione che qualunque cosa sia fenomenica e quindi transitoria è ingannevole, e come tale non ha alcuna realtà che perduri. Da questo concetto si è sviluppata l'idea comune, nei sistemi filosofici hindu, incluso il Buddhismo, che tutto quello che è illusorio è, in qualche strana maniera, magico, perché presenta una falsa apparenza che inganna sia i sensi che la mente.
Consideriamo l'uomo stesso: è essenzialmente una monade divino-spirituale che peregrina attraverso tutti i mondi fenomenici e le sfere dell'esistenza manifestata, che sono quindi illusori; questa monade divino-spirituale è essa stessa eterna perché è una piccola goccia del logos cosmico, dello spirito cosmico, la Realtà di tutto dentro il nostro universo. Nondimeno, tutte le diverse parti della costituzione umana di cui questa monade si riveste sono, a causa della loro natura più o meno impermanente, illusioni, se paragonate alla stessa monade divina. Sarebbe ridicolo dire che l'uomo non ha un essere reale o un'esistenza effettiva, cosa che decisamente egli ha; ma sono solo le sue diverse monadi ad essere le piccole gocce dell'eternità, e tutto il resto di lui è la 'magia' elaborata nel tempo e nello spazio dal karma, che provvede a produrre tutti gli aspetti fenomenici della sua costituzione.
Mentre la maya della parte inferiore di ogni essere o cosa, sia che parliamo di una galassia o di un uomo, esiste sicuramente e produce tutto ciò che è, è chiaro che le multiformi varietà che ci circondano non sono assolutamente non-esistenti, né sono, in senso assoluto, diverse e separate dalla Realtà che sta dietro. Se fosse così, dovremmo subito inventare un'inesplicabile dualità tra la Realtà fondamentale e l'illusione manifestata, e non vi sarebbe possibilità alcuna di spiegare come il fenomenico scaturisca dal noumenico, cioè dal Reale. Secondo quest'errata teoria i due sarebbero completamente disuniti, e il fenomenico non avrebbe alcun nesso d'origine nel Reale. Così, filosoficamente parlando, anche maya o mahamaya è una funzione della Realtà — il suo velo — che emana se stessa dalla Realtà e che alla fine è destinata e ricongiungersi con il Reale.
Tratteremo ora un aspetto della dottrina di maya che solitamente è legato ai sistemi esoterici filosofici. Tutte le entità manifestate, mondi e piani, potrebbero considerarsi, in un senso veramente profondo, come le visioni o i sogni prodotti dalla mente cosmica o spirito cosmico quando hanno inizio i periodi di manvantara universale.
Nel caso dell'uomo, l'incarnazione dell'ego spirituale è una 'morte' relativa dell'ego; e ugualmente la fine dell'incarnazione nei mondi della materia è un risveglio dell'ego spirituale verso un più ampio campo di autocoscienza sui suoi piani e mondi, e all'interno di essi. In modo simile, e seguendo sempre la chiave maestra dell'analogia, quello che chiamiamo manvantara è una morte dello spirito cosmico — è, paradossalmente, una sorta di devachan o anche un kama-loka dello spirito cosmico, o mente; solo quando il manvantara termina e comincia il pralaya questi sogni e visioni dello spirito cosmico svaniscono, e la sua estesa coscienza si risveglia ancora una volta alla piena realtà della propria sublime Egoità.
Da ciò possiamo dedurre due conclusioni: (a) il devachan, pur essendo più vicino alla Realtà se paragonato alla vita terrena, è tuttavia una maya più di quanto lo siano le esperienze terrene autocoscienti che producono le cause; i sogni devacianici, per quanto belli e spirituali, dopotutto sono soltanto sogni; e (b) la monade spirituale assapora la Realtà ed è affrancata dai suoi sogni ingannevoli che sono soltanto le numerose esperienze determinate dai pellegrinaggi nell'esistenza manifestata. E proprio così avviene con l'universo e la sua mahamaya.
Vediamo quindi che tutti i mondi manifestati sono fenomenicamente reali, perché esistono come un'illusoria e quindi magica attività della mente cosmica, e perché la Realtà essenziale è il loro retroterra e sorgente. Ė importante afferrare questo concetto, perché considerare maya come il non-essere assoluto del fenomenico significa allontanarsi di parecchio dal vero insegnamento. Il fenomenico è illusorio, e tuttavia è basato sulla Realtà, perché scaturisce da essa.
Questo è il motivo per cui la dottrina di maya ha così facilmente acquisito il valore di una magica illusione o l'opera di un magico potere della natura. In diversi passaggi degli antichi libri filosofici degli hindu, alcune divinità cosmiche, come Varuna o Indra, sono rivestiti del potere magico dell'inganno, passaggi che indicano lo stesso universo fenomenico come il prodotto della fantasia intelligente dell'immaginazione cosmica, che sogna l'universo e tutto ciò che vi è contenuto.
Questo è ben esemplificato nel seguente estratto dallo Yoga-Vasishtha-Ramayana (cap. xii):
Durante il regno del grande sonno del Maha-pralaya, Brahm solo rimane come Spazio Infinito e Pace Suprema. E quando si risveglia alla fine dello stesso, sotto forma di Chit (coscienza), Esso pensa: "Io sono un granello di Luce," proprio come nei sogni tu immagini te stesso sotto qualunque forma ti piaccia. Quel granello di Luce assume in Se Stesso l'Estensione: "Io sono Esteso." Quella massa, in verità falsa, diventa il Brahmanda. Dentro quel Brahmanda, Brahm pensa ancora: "Io sono Brahma," e Brahma immediatamente diventa il Reggente di un vasto impero mentale che è questo mondo. In quella prima creazione, la coscienza prese molte forme; e le forme-radice che la coscienza assunse in quell'Inizio — persistono immutabili attraverso il Kalpa. Quello è il Destino che è la Natura e la Legge delle Cose, finché durerà quella coscienza primordiale. Esso crea quelli che sono il nostro Spazio e Tempo e gli elementi basilari, li rende ciò che sono fuori da Asat. Quel Destino ha anche fissato le durate della vita umana, variando, in diversi Yuga, con diversificazioni nei gradi di peccato e merito.
Lo stesso pensiero è incorporato in parecchi passaggi dei Purana e delle Upanishad, nel Rig-Veda, ed ugualmente nella Bhagavad-Gita.[9]
Noi esseri umani siamo parte integrante dell'insieme cosmico; e prendendo parte, come facciamo, a tutte le sue caratteristiche e qualità, seguiamo le leggi e le funzioni dell'universo di cui siamo la progenie. Questo è il motivo per cui non solo siamo soggetti a maya, ma tutto
dentro di noi come nostra natura divino-spirituale, che in definitiva ci permette di crescere evolutivamente per conoscere direttamente il Reale.
Il fascino della magia di maya ci circonda da tutti i lati; tuttavia la non-illusione, cioè il noumeno cosmico, o il cuore di Sunyata, è la nostra parte più intima; ed è proprio a questa parte più profonda che allude H.P.B. quando parla di Alaya[10] come "l'Anima Universale o Atman" — ciò che non è fenomenico perché non si dissolve mai nell'illusione. Anche le nostre ricerche scientifiche sono arrivate a sospettare che la materia fisica è in se stessa illusoria — "per lo più dei buchi." Ciò che chiamiamo materia fisica di per sé non è sostanza, ma soltanto produzioni o manifestazione di qualche realtà sottostante, al cui paragone il nostro universo è sunya, il vuoto.
Alcuni degli scritti Mahayana enumerano diciotto modi per descrivere la vacuità, cioè Sunyata,[11] perché il vero proposito è di mostrare l'irrealtà o la vacuità di ogni cosa nella natura universale tranne la Realtà originante. Queste sono davvero una serie di paradossi filosofici, che richiamano piuttosto la scuola greca di Eraclito, che era definito "l'Oscuro" a causa della sua sottigliezza intellettuale nell'esporre paradossi che mostravano sia il pro che il contro dei principi filosofici.
I commentatori buddhisti hanno sempre sottolineato che tutte le implicazioni dell'idea di vuoto possono essere afferrate solo attraverso prajna, l'apprendimento intuitivo buddhico. La vacuità non è una nozione speculativa da adattare a qualche categoria di pensiero logico. Rimane irraggiungibile ed impensabile, perché è la Realtà finale, completamente oltre i confini del mondo delle manifestazioni. Ne consegue che è diventata sinonimo dell'idea di Talità (tahata). Si può dire che Vacuità e Talità sono la percezione Mahayana della Realtà. Non sono concettualmente ricostruite, ma realizzate intuitivamente.
Tornando di nuovo all'intelligenza cosmica "che sogna" l'universo, dovremmo ricordare che l'Assoluto, ossia la mente cosmica, non si proietta totalmente come maya, ma solo sotto una sorta di "sognare" — cioè, non diventa completamente l'universo fenomenico. Sarebbe sbagliato, come supporre che la monade spirituale nell'uomo discenda a reincarnarsi nel corpo umano nella sua interezza. Piuttosto, proietta da se stessa un raggio che, proprio perché è una porzione e non la monade spirituale nella sua totalità, è una maya relativa se paragonata alla sua genitrice.
Attraverso le epoche il genio dell'uomo ha evoluto varie teorie, filosofiche, scientifiche, e religiose, su come l'universo venne in esistenza. Le differenze, comunque, erano principalmente nella maniera di presentarle, poiché tutte le grandi menti del passato enunciarono la stessa dottrina della saggezza, la stessa teosofia, che fu originariamente insegnata ai primi esseri umani autocoscienti su questa terra da entità manasaputriche provenienti da altri piani. Ma con il passare delle ere, il significato originario di queste filosofie è stato perso di vista, e rimasero i semplici termini; e così nacquero diverse scuole di pensiero, e ciascuna seguiva più o meno l'interpretazione puramente esoterica del primordiale sistema religioso-filosofico al quale era collegata.
Ad esempio, qualcuno dei pensatori dell'antica India insegnava la dottrina Arambha, secondo cui l'universo fu creato da qualche intelligenza suprema, da materiale di tipo cosmico che già esisteva nello spazio. Questa scuola concepiva l'universo come formato da un'immensa divinità individuale, e che aveva quindi un 'inizio,' il significato essenziale del termine sanscrito Arambha. Lo schema cristiano andò ancora più lontano lungo la stessa linea, ed elaborò una struttura di pensiero del tutto antifilosofica riguardo alle cose, in cui un Dio personale ed infinito aveva creato l'universo dal nulla. Questa era semplicemente l'idea Arambha che era germogliata. Tuttavia, quei pensatori hindu avevano ragione, nel senso che ogni universo ha i suoi periodici inizio e fine, anche se con certezza non 'creato' come un prodotto esterno della volontà ed intelligenza di una mente suprema che agiva in un modo presumibilmente irresponsabile. Il fatto è che ogni universo è semplicemente il karma, o la riproduzione, del suo precedente sé — un universo anteriore che precedeva la propria reincarnazione — e questo, ripetutamente attraverso la durata senza tempo, anche se si realizza dappertutto un progressivo miglioramento attraverso il processo di crescita evolutiva.
Un'altra scuola insegnava la dottrina Parinama, che supponeva che l'universo — qualsiasi universo — fosse emanato da un'intelligenza cosmica suprema, dalla mente e dalla sostanza che confluiscono in manifestazione dall'interno stesso. Questa particolare idea di emanazione è in perfetto accordo con la tradizione esoterica che, comunque, aggiunge un punto di grande importanza: questa suprema intelligenza cosmica non è che una di un'infinità di altre intelligenze simili, e non è la sola ed unica nello spazio sconfinato. (Vedi Le Lettere dei Maestri, p.73 ed. or.)
Una terza scuola, la Vivarta, asserisce, come base della sua dottrina, che l'universo è emanato dalla divinità come un cambiamento o modificazione di se stessa, e quindi come un prodotto impermanente e, di conseguenza, mayavico. Su questo punto siamo d'accordo con certi elementi dei loro insegnamenti. Ma l'errore di questa scuola sembra essere che, pur essendo l'universo una temporanea illusione cosmica, in verità lo è relativamente, perché si basa sul substrato della Realtà.
Queste tre scuole possono essere paragonate a scienza, filosofia e religione. La Arambha con un punto di vista scientifico; la Parinama con una visione filosofica; e la Vivarta con l'approccio religioso di visionare la verità.[12]
Ricapitolando: la scuola Arambha è quella dottrina delle origini delle cose, che qualificata come scientifica vede l'universo come un procedere in avanti, come una 'nuova' creazione dell'intelligenza cosmica già pre-esistente e di 'punti' pre-esistenti dell'individualità, che chiameremmo monadi piuttosto che atomi. Sebbene questo universo nuovamente prodotto sia riconosciuto come il risultato karmico di un universo anteriore, il 'sé' precedente di quello attuale, tuttavia l'accento è posto sugli inizi, sull'universo come una 'nuova' produzione, secondo il modo in cui più scienziati interpretano l'universo.
La scuola Parinama, pur avendo molti punti in comune con quella Arambha, mette in rilievo la nascita dell'universo come una realizzazione di poteri, entità e sostanze che si svolgono dall'interno, e che quindi portano l'universo in esistenza con un tipo di trasformazione o dispiegamento emanativo o evolutivo.
Il sistema Vivarta penetra ancora più profondamente nel mistero cosmico e fissa la sua attenzione sulla durata senza fine dell'essenza divina, che produce apparenze[13] di se stessa attraverso auto-modificazioni, o parti di sé, determinate dall'evoluzione emanativa che proviene dall'interno, essendo queste modificazioni la mahamaya cosmica. Ecco il motivo per cui l'intero universo, visibile ed invisibile, è considerato come illusorio, semplicemente perché una modificazione collettiva, o una serie di modificazioni dell'essenza divina che le produce, rimane sempre se stessa e tuttavia produce apparenze di sé attraverso l'oggettivazione, con una sequenza estensiva o evoluzione emanativa.
Queste tre scuole esistono ancora in India con maggiori o minori variazioni, e le loro idee hanno trovato verifica nel resto del mondo. Pur propugnando elementi di verità, sembrano presupporre una Suprema Intelligenza creatrice che, come Individuo, opera in una maniera più o meno umana, come un Creatore o un Modellatore; tutte le tre scuole sono troppo antropomorfiche.
Il punto di vista teosofico considera che lo Spazio illimitato contiene dentro di sé campi sconfinati, in ogni suo infinitesimale punto matematico, vita e sostanza inerente, creativa e formativa; così, mentre in una parte dell'Illimitato, visibile ed invisibile, un universo può venire in esistenza, in un luogo diverso un altro universo potrebbe aver raggiunto la sua conclusione manvantarica, pronto al suo pralaya cosmico. Per cui, l'Infinitudine è erroneamente concepita quando si suppone che sia in ogni momento un agente attivo e creativo che emana gli universi dal suo interno, perché questo implica un'azione volontaria e formativa — e quindi limitata. La verità è che ciascun universo, come unità spaziale, pur esistendo nell'Illimitato attraverso l'eternità, tuttavia si porta in manifestazione a causa dei semi inerenti di individualità attiva. Questo processo degli universi che appaiono, svaniscono, e vengono in esistenza a causa della propria vita individuale innata, la propria coscienza ed energia, è un aspetto della dottrina dello swabhava.[14]
Tutte queste entità o esseri — che sia un universo o un atomo di vita che peregrina dappertutto — sono circondate e pervase dalla mente che comprende, dalla coscienza, dalla sostanza e dalla forza del Tutto sconfinato. Come l'ha espresso H.P.B.: "La Causa Inconoscibile non ha evoluzione, né conscia né inconscia, ma presenta solo, periodicamente, aspetti diversi di Se Stessa alla percezione delle Menti finite." (La Dottrina Segreta, II, 487 ed. or.; p. 321 online v. s. I. Cintamani)
Qui l'idea è che la "Causa inconoscibile" non è un individuo nel senso di essere un creatore, ma è il vasto ed illimitato oceano cosmico da cui tutto sorge, in cui tutto è per sempre, e in cui tutte le entità alla fine ritornano per i loro rispettivi periodi di riposo e recupero. Sarebbe del tutto sbagliato immaginare l'Infinitudine illimitata come un individuo che si agita e ondeggia con flutti di vita in evoluzione. Tutti questi concetti di processi cosmici sono finiti, per quanto la nostra immaginazione possa ritenerli colossali. Non possiamo dire che l'Infinito, l'Eternità, l'Inconoscibile, evolvono, perché solo le cose finite sono in evoluzione, in quanto l'evoluzione è un processo finito. L'Evoluzione altro non è che una maniera diversa per esporre l'operato del karma, cioè l'elaborazione del karma e l'evoluzione sono praticamente identiche.
Nella coscienza di esseri di grado dhyani-chohanico l'evoluzione umana qui sulla terra è una pura maya, e nella coscienza di entità ancora più sublimi, che sono ben oltre i dhyani-chohan, come questi sono al di sopra di noi, anche l'evoluzione dhyani-chohanica è una pura maya. Nondimeno, l'evoluzione esiste nei mondi della materia dove maya è suprema — poiché materia e maya significano sostanzialmente la stessa cosa. Qui l'evoluzione è suprema perché karma è supremo, e quindi l'evoluzione è per noi proprio una realtà. Esiste ma non è.
Quando qualsiasi entità o essere si risveglia in manifestazione, il processo comincia in ogni caso con l'inizio dell'emanazione dall'interno, da parte dell'entità divina che fino a quel momento era 'dormiente.' Il termine emanazione deriva dal Latino e significa 'affluire,' proprio come il pensiero affluisce dalla mente, o come un fiume affluisce dalla sua sorgente originaria. L'emanazione procede continuamente fino al termine dell'intera vita di qualsiasi entità manifestata, grande o piccola; e, in verità, ogni avanzamento evolutivo è una crescita ottenuta grazie all'emanazione o il flusso di poteri, attributi, e facoltà, provenienti dall'essere interno dell'entità.
Potremmo pensare che emanazione ed evoluzione siano quasi, se non del tutto, identiche. In realtà, sono semplicemente due modi di vedere lo stesso processo, sia cosmico che infinitesimale. Evoluzione significa dispiegare e quindi emettere ciò che è già pre-esistente come potere e facoltà non manifestati all'interno dell'entità. Quando l'emanazione comincia su qualche piano, nello stesso istante comincia ugualmente l'evoluzione. In altre parole, una volta che una qualità o facoltà inizia ad affluire dall'essenza della monade, da quell'istante comincia parimenti a dispiegare il suo swabhava o attributi caratteristici. Ora, l'opposto esatto di evoluzione è involuzione: il riavvolgersi o il riadunarsi di qualunque cosa fosse stata precedentemente dipanata. L'involuzione, dunque, è anche il procedimento opposto dell'emanazione.
L'intero universo manifestato, se paragonato al divino, è una mahamaya, prodotta dall'evoluzione emanativa. Comunque, per noi esseri finiti, noi stessi una maya a paragone dell'ineffabile divinità, evoluzione ed emanazione e tutte le loro elaborazioni sono abbastanza reali, perché le nostre menti percettive sono esse stesse il prodotto di questi processi mayavici. Possiamo dire che la filosofia esoterica insegna un idealismo oggettivo: che l'universo e tutte le sue manifestazioni e opere sono 'reali' per chi vi è coinvolto; ma sono maya se comparati alla Realtà assoluta ed illimitata da cui scaturì originariamente l'universo come una monade cosmica, e in cui ritorneremo di nuovo.
"Vanità delle vanità; tutto è vanità," disse il predicatore nell'Ecclesiaste. Il termine ebraico qui tradotto come 'vanità è hebel, che genericamente corrisponde alla parola sanscrita maya. (Questo è anche il nome di uno dei 'figli di Adamo' — Abele, il fratello femmina di Caino. Hebel o habel significa essere impermanente, svanire; ne consegue che qualsiasi cosa non è eterna, è illusoria.) Ciò dimostra che la dottrina dell'illusione non appartiene solo agli hindu, ma fa parte della comune eredità filosofica e religiosa della razza umana.
Come H. P. Blavatsky dice in una delle sue lettere: "Tutti noi, in un certo senso siamo una Maya; ma per la nostra propria percezione siamo una realtà, nello spazio e nel tempo, e finché dura la percezione del nostro piano."[15] Questa è una profonda verità: la maya sembra sufficientemente reale alla maya; e sebbene nella nostra essenza più profonda noi siamo divini e quindi parte integrante della Realtà cosmica, tuttavia, nelle nostre personalità manifestate, siamo distintamente mayavici, perché impermanenti e transitori, e perché siamo imperfetti. Qui si trova la chiave non solo per una corretta interpretazione su come maya c'influenza, ma anche come possiamo trovare il sentiero con cui liberarci da maya ed essere così all'unisono con il Reale e 'vedere' la Verità di per sé.
Il nostro dio interiore, l'immortale scintilla monadica dell'ardente essenza cosmica della Realtà assoluta, è la sorgente di tutta la nostra verità e realtà. Più intimamente diventiamo lui e manifestiamo la sua saggezza e il suo potere trascendentale nelle nostre vite, più strettamente ci avviciniamo alla sua Realtà. In questo modo ci affranchiamo progressivamente dal magico incantesimo dell'illusione in cui viviamo e che c'influenza a motivo delle varie imperfezioni dei rivestimenti della nostra coscienza — le nostre varie 'personalità.'
Com'è veramente affermato nella Dottrina Segreta (I, 145-6 ed. or.; p. 123 online v.s. I. Cintamani):
. . . secondo i nostri insegnamenti, che considerano questo Universo fenomenico come una Grande Illusione, più un corpo è vicino alla Sostanza Sconosciuta, più si approssima alla Realtà, in quanto più lontano da questo mondo di Maya.
Quindi, la causa della sofferenza umana non è in maya stessa, ma nelle nostre imperfezioni personali, e spesso facciamo scelte sbagliate cadendo ancora più profondamente nelle tumultuose ondate dell'oceano illusorio dell'esistenza manifestata. E' la nostra caparbia perversità di pensiero ed emozioni, dell'istinto allettante e dell'attaccamento alle cose dei sensi, come pure la nostra intelligenza non ancora pienamente evoluta, che c'impediscono di risollevarci da queste ondate d'illusione verso la chiara ed eterna luce solare dell'atmosfera del nostro dio interiore.
Noi siamo sotto il dominio di vari tipi di maya. "Voi soffrite per colpa vostra. Nessuno vi costringe" — come scrive Sir Edwin Arnold nel suo bel poema La Luce dell'Asia. Siamo sotto il dominio di maya sul piano intellettuale, e abbiamo dimenticato la nostra origine divina. Facciamo sogni pesanti a livello materiale perché siamo immersi nelle illusioni dell'esistenza incarnata, essendo forse la nostra mentalità-cervello il maggiore esempio della maya umana, e quindi il più grande peccatore in noi.
Possiamo affrancarci da maya in tutti i suoi vasti campi sforzandoci di coltivare le facoltà atmiche, buddhiche, e quelle elevatamente manasiche, che sono dentro di noi, lentamente innalzandoci ai piani superiori della nostra costituzione e vivendo dentro e su di essi, e lo possiamo fare mentre siamo incarnati. Il primo passo è di essere convinti in ogni parte del nostro essere che il cuore o nucleo di ciascuno di noi è un raggio della Realtà senza fine. Come scrisse H.P.B.:
. . . il minatore sa che aspetto avrà l'oro allorché sarà estratto dal quarzo, mentre i1 comune mortale non può formarsi un concetto della realtà delle cose quando sono separate da Maya, che le vela e le nasconde. Solo l'Iniziato, ricco del sapere acquisito dalle innumerevoli generazioni dei suoi predecessori, volge "l'Occhio di Dangma" verso l'essenza delle cose, su cui non vi è Maya che possa avere influenza. (D. S., I, 45 ed. or.; p. 58 online v. s. I. Cintamani)
L'Occhio di Dangma, come i tibetani chiamano l'Occhio di Siva, è un altro termine per l'organo interiore e spirituale della visione del Buddha dentro di noi, o, come lo parafraserebbero i cristiani, del Christos immanente. In verità, è precisamente quando qualche grande individuo umano, nel corso di molte vite di sforzi coscienti verso il suo dio interiore, è diventato uno con il Christos o il Buddha dentro di lui, che allora egli stesso diventa questo Buddha o Christos incarnato.
La sola differenza — sebbene molto importante e sublime — tra un Buddha e l'uomo comune è che un Buddha si è autocoscientemente unito con il suo dhyani-buddha interiore, altrimenti il buddhi-manas della propria costituzione, e in verità ne è la vera incarnazione. Quando quest'unione dell'iniziato con l'atman-buddhi-manas o monade spirituale è più o meno totale, allora l'Occhio di Dangma funziona con un potere e uno splendore relativamente completi, e un tale uomo, che da quel momento è realmente un Buddha o un Cristo, possiede appieno un'onniscienza e un'onnipotenza riguardo tutti gli esseri e le cose della gerarchia a cui appartiene.
Tra lontanissime ere del futuro, e alla fine della settima ronda dell'attuale catena planetaria, tutti coloro che allora avranno raggiunto con successo la meta saranno divenuti dhyani-chohan. Naturalmente, questo coronamento della grandezza umana alla fine della settima ronda non è la fine di tutta la possibile evoluzione delle monadi umane, perché le epoche future porteranno le monadi ad evolversi ad altezze di realizzazione spirituale ed intellettuale ancora maggiori. Anche allora vi sarà maya, ma una maya su un piano molto più spirituale, che a sua volta sarà trasceso man mano che le monadi avanzeranno sempre più in alto nel loro pellegrinaggio eterno. E' così che i differenti oceani di maya, ciascuno essendo una serie di piani cosmici, saranno trascesi l'uno dopo l'altro, in un viaggio senza fine verso quella Realtà sempre più irraggiungibile che chiamiamo Parabrahman.
Citando ancora una volta La Dottrina Segreta (I, 638-9 ed. or.; p. 480 v. s. Istituto Cintamani):
Nel simbolismo antico era sempre il Sole — sebbene si volesse significare il sole spirituale, e non quello visibile — che si supponeva inviasse i principali Salvatori ed Avatara. Di qui proviene un intimo collegamento fra i Buddha, gli Avatara, e molte altre incarnazioni dei Sette superiori. Più s'avvicina al suo prototipo nel "Cielo," e meglio è per il mortale la cui personalità sia stata scelta dalla propria Divinità personale (il settimo principio) come sua dimora terrestre. Perché ad ogni sforzo di volontà verso la purificazione e l'unione con quel "Dio personale," uno dei raggi inferiori si rompe, e l'entità spirituale dell'uomo è trascinata sempre più in alto verso il Raggio che sostituisce il primo, finché, di raggio in raggio, l'uomo interiore è attratto dal Raggio unico e supremo del Sole-Genitore. Così, "gli avvenimenti dell'umanità sono coordinati con le forme dei numeri," poiché le singole unità di quell'umanità provengono tutte dalla stessa sorgente — il Sole Centrale e la sua ombra, quello visibile.
L'illusione del mondo in cui viviamo è realmente una tela molto intricata e meravigliosamente costruita da un incantesimo naturale, una tela intessuta da schiere di entità evolventi che ci circondano, dalla quale siamo ingannati perché le nostre menti imperfettamente sviluppate travisano le immagini che vedono. E' la maya esteriore e la maya interiore. La natura, nei suoi aspetti differenziati e manifestati è, per così dire, un'estesa fata morgana, composta di innumerevoli miraggi minori tuttavia simili; nondimeno, nel cuore di questa sempre attiva tela d'illusioni, che è incessantemente tessuta e quindi presenta incessantemente illusioni sempre nuove, vi è la Realtà. Proprio come vi è la Realtà nel cuore di ogni unità individuale dell'infinito esercito di monadi che si associano nelle loro incomprensibili grandi masse e cooperano per creare questo affascinante miraggio, così nel profondo di ciascuno di noi vi è il Reale essenziale. E' quindi non solo nostro dovere — ma il primo passo sul sentiero della Realtà — trattenere stabilmente nella Luce dentro di noi le nostre erranti illusioni create dalla mente, e gradualmente, nel passare delle epoche, fare di questa Luce la stella che guida le nostre vite.
[1] Nella nostra letteratura c'è stata una certa vaghezza riguardo all'eventuale differenza tra kosmo e cosmo. Questo è un termine greco, e se vogliamo attenerci rigorosamente all'etimologia, esso andrebbe pronunciato in tutti i casi con una 'k.' Tuttavia troviamo un certo vantaggio nell'adottare entrambi i termini: usando kosmo ci riferiamo all'universo più grande, che quasi invariabilmente significa la galassia o un ammasso di galassie, e usando cosmo intendiamo il nostro sistema solare. Ė un peccato che quest'uso non sia stato sistematicamente adottato dagli autori teosofici, incluso il sottoscritto.
[2] In Sanscrito c' è un termine che è l'esatto equivalente filosofico e scientifico del Pleroma dei greci: Brahmanda-purna. Brahmanda, o Uovo di Brahma, si applica non a qualche particolare sistema solare, planetario, catena o galassia, ma a qualsiasi e a tutti, dipende dalla scala usata al momento. Aggiungendo l'aggettivo purna, che significa pieno, l'idea dell'Uovo del Mondo riempito da entità manifestate è rafforzato e meglio definito.
[3] I termini Sunya, Sunyata, Mahasunya e Mahasunyata, non sono radicalmente diversi l'uno dall'altro, con l'unica distinzione che i termini che cominciano con maha — che significa grande — si applicano ad una scala di grandezza molto più vasta, sia nello spazio che nella durata.
[4] Caos (χάος) deriva da un'antica radice greca, cha (χα), che ha il duplice significato di trattenere e rilasciare; quindi, caos è il 'contenitore' e l'emanatore' di tutte le cose.
[5] Le Lettere dei Mahatma ad A. P. Sinnett: "Il libro di Khiu-te ci insegna che lo spazio è di per sé infinito. Ė senza forma, immutabile ed assoluto. Come la mente umana, che è l'inesauribile creatrice di idee, la Mente Universale o Spazio ha la sua ideazione, che si proietta in oggettività al momento stabilito; ma lo spazio in se stesso non ne è influenzato."
[6] Il prof. John Elof Boodin, nel suo articolo "The Universe a Living Whole," The Hibbert Journal, luglio 1930, ha scritto: "Quello che noi comunemente consideriamo come spazio, è una pura negazione. Non vi è alcuna cosa nel senso di non-materia. Se pensiamo al cosmo come ad un insieme vivente, ciò che chiamiamo spazio vuoto potrebbe essere l'anima dell'insieme — lo spirito onnipervadente in cui i modelli di energia trasmessi sono immanenti e diretti al proprio obiettivo. Ad ogni modo, chi concepisce il cosmo come uno spazio totale vivente ha perso le sue paure."
[7] Gli altri termini per indicare lo spazio, l'etere spaziale, ecc., sono bhuman e kha. Bhuman, da bhu, divenire, trasmette l'idea fondamentale del divenire, della crescita e del progresso mediante una serie di fasi. Ė quella parte dell'akasa universale compresa dentro ogni singolo Brahmanda o gerarchia cosmica, e quindi, su questa scala più piccola, si applica alla globalità di tutti gli esseri e cose all'interno di quella gerarchia. Come tale, può assumere il significato di Pleroma o Pienezza.
La parola kha ha ugualmente il senso di spazio, e anche di etere, perché il suo significato originale è una speciale cavità, popolarmente resa con etere, cielo, paradiso, e persino aria. Il suo uso è di solito ristretto solo alla nostra atmosfera: come in kha-ga e khe-chara, che significano entrambi andare nell'aria, come un uccello. H.P.B. ne 'La Voce del Silenzio' usa khe-chara come un appellativo per quegli adepti che hanno sviluppato la facoltà di muoversi nell'aria e attraverso di essa — più precisamente, negli spazi invisibili — nelle loro mayavi-rupa o corpi illusori, esercitando quel potere che in Tibet è chiamato Hpho-wa.
[8] Vedi il Vajrachchedika-Sutra ("Tagliatore di Diamanti") — uno degli scritti religioso-filosofici della letteratura buddhista, molto stimato ed ampiamente studiato.
"Da questa saggezza i discepoli saranno illuminati e resi capaci di soggiogare qualsiasi desiderio tumultuoso! Ogni specie di vita, che sia nata da un uovo o formatasi in un utero, o generata da una covata, o prodotta per metamorfosi, con o senza forma, che possegga facoltà mentali o ne sia priva, o ne sia priva e non priva, oppure nessuna delle due — da queste condizioni mutevoli dell'esistenza, io t'imploro di cercare la liberazione (mieh-tu) nel concetto trascendentale del Nirvana. Così, tu sarai affrancato da un mondo di vita senziente incommensurabile, incalcolabile ed illimitato. E perché, Subhuti? Perché, se nelle menti dei Bodhisattva-Mahasattva esistessero questi concetti arbitrari dei fenomeni intesi come un'entità, un essere, un sé vivente, o un ego personale, essi sarebbero indegni di essere chiamati Bodhisattva-Mahasattva … Pertanto, la conclusione è questa — che tutte le cose possedute di tipo personale o individuale, tutti i concetti arbitrari e tutti i fattori condizionanti, sono come un sogno, un fantasma, una bolla di sapone, un'ombra, una rugiada, evanescente, un fulmine; e tali dovrebbero essere considerati." (Sezioni 3 e 32)
Questo Sutra è molto letto in Cina, Giappone, Tibet, ed altri paesi buddhisti, ed ha una così grande stima popolare come il Saddharma-Pundarika (Il Loto della legge della realtà) ed il famoso Shau-Leng-Yan-Ching (o Surangama-Sutra). Il Sutra del Tagliatore di Diamanti originariamente fu scritto in Sanscrito, ma non vi è alcuna notizia precisa sul suo autore o sulla data di composizione. Il Sutra forma la Nona Sezione dell'enciclopedico Mahaprajnaparamita in seicento fascicoli.
Nel corso del tempo fu tradotto in Tibetano, Cinese, Mongolo e Manchu, e il suo titolo in Cinese è Chin-kang-ching. La traduzione cinese è attribuita a Kumarajiva (un nativo del Kashmir, che lavorava in Cina per diffondere il Buddhismo durante l'ultima parte del quarto secolo d. C. e l'inizio del quinto, e la cui profonda erudizione e la realizzazione spirituale lo fecero conoscere come i 'quattro soli' — i chatur-surya — del Buddhismo) ed è stata la base delle traduzioni europee di questo Sutra, come quelle di William Gemmel e del rev. S. Beal. Sfortunatamente, né queste né la traduzione di Max Muller danno un'idea adeguata delle sottigliezze del pensiero buddhista e del significato esoterico di vari termini tecnici, dei quali gli studiosi occidentali hanno perduto le chiavi. Dal testo stesso è abbastanza ovvio che per Sutra s'intendevano particolarmente coloro che erano già "entrati sul Sentiero che conduce al Nirvana" e che stavano tentando di "raggiungere l'illuminazione del piano Buddhico." Oltre ad incorporare una grande quantità di insegnamenti riguardanti la pratica delle paramita, il Vajrachchedika-Sutra ha come principale obiettivo la delucidazione della dottrina che tutte le cose oggettive, i fenomeni e le idee, sono irreali ed illusorie, poiché sono semplicemente una manifestazione della propria mente personale; e che persino i più elevati concetti del Dharma, del Tathagata, e anche la liberazione stessa, sono creazioni della mente e quindi 'vacue' nel senso tecnico di questo termine, perché la comprensione umana non si è ancora affrancata e non è ancora diventata una con il Buddha interiore. Insegna un modo di vivere alla luce della dottrina profondamente metafisica secondo cui la sola vera essenza è l'essenza della mente — che la teosofia chiama buddhi — dietro la quale vi è celato un ultimo principio di cui la mente stessa è soltanto un aspetto.
Alcuni traduttori, ignorando i metodi dell'allenamento e dell'insegnamento esoterici, hanno asserito che i 'fogli' del testo originale sanscrito del Sutra devono essere stati spostati in un certo periodo del passato, poiché il testo è davvero molto confuso, e lo sviluppo logico del tema non può essere facilmente rintracciato. In questo contesto, è interessante rilevare e quindi sostenere le opinioni di alcuni studiosi cinesi che la cosiddetta 'confusione logica' può essere spiegata molto meglio ricordando l'antico metodo d'insegnamento, che consiste innanzitutto nel presentare l'insegnamento centrale, lo schema principale della dottrina, e solo allora riempire il sottofondo e i dettagli delle riflessioni che possono sopravvenire, e con una superba indifferenza ai metodi della 'sequenza logica' della tanto millantata mente-cervello.
Vi è uno speciale interesse collegato al termine cinese mieh-tu nel passaggio che abbiamo citato. Sta per liberazione o affrancamento; mentre mieh significa sparizione o scomparsa, e quindi potrebbe essere facilmente frainteso dagli orientalisti come annichilimento, come è stato fatto nel caso del termine nirvana, la parola tu significa 'attraversare in sicurezza' e quindi si relazione con il termine paramita. Il buddhista cinese appare quindi meglio preparato a negare, in base alla vera struttura del suo termine tecnico inteso come liberazione, l'erroneo concetto inerente al nirvana che per tanto tempo ha prevalso tra gli orientalisti.
[9] I seguenti estratti chiariranno il pensiero:
Dall' Isvara-Gita, che forma una parte del Kurma-Purana:
Tutto nasce da noi, in verità qui (tutto) si dissolve.
Il creatore di maya, limitato da maya, crea molteplici forme. — ii, 6
Io genero l'intero (universo), incessantemente Io distruggo l'universo.
Io posseggo il potere che crea l'illusione, ma io stesso sono illusorio, una divinità vincolata al tempo. — iii, 22
In verità Io sono il Distruttore, Colui che Evolve, il Conservatore.
Maya, in verità, è il mio potere, maya è l'ingannatrice del mondo.
In verità, mio è il potere supremo, che è conoscenza, così esso è celebrato.
Ed Io faccio svanire maya — Io che sono nel cuore degli yogi. — iv, 17-18.
In verità, è detto che maya è la causa di questi tranelli.
Mulaprakriti (la sostanza –radice) — l'Immanifestato (Avyakarta), quel potere esiste in me. — vii, 30
Dalla Svetasvatara-Upanishad:
La poesia sacra, i sacrifici, le cerimonie, i decreti, il passato, il futuro, e ciò che è dichiarato dai Veda —
Tutto questo l'artefice dell'illusione proietta fuori da Quello, e in esso tutto il resto è confinato dall'illusione.
Dovresti imparare che la Natura è Illusione, e il Possente Signore — il Creatore dell'Illusione.
L'intero mondo è pervaso di entità che sono parte di Lui. — iv, 9-10
Dal Rig-Veda:
Egli combina in forma ogni forma; cioè è la sua forma ad essere vista. Indra sta in molte forme per il suo potere magico (maya) poiché mille destrieri sono aggiogati per lui. — vi, 47, 18
Dalla Bhagavad-Gita:
Sebbene (io sia) non nato, di natura indistruttibile, sebbene (io sia) signore di tutte le cose, tuttavia, pur dimorando nel mio stato naturale, io nasco attraverso l'illusione di sé (o: io prendo nascita dal mio proprio potere — atmamayaya) — iv, 6
Il Signore di tutti gli esseri, O Arjuna, dimora nella regione del cuore, muovendo tutti gli esseri (come se fossero fissati) sopra la macchina (dell'universo) per mezzo della (sua) maya (potere mistico). — xviii, 61
Questa mia maya divina, per la natura delle qualità (guna) è difficile da trascendere. Solo quelli che a me ricorrono, superano questa maya. — vii, 14
[10] Alaya è un termine buddhista usato specialmente nelle Scuole del Nord, ed è praticamente identico all'akasa più elevata, il vertice dell'anima mundi o anima cosmica. Ė un composto sanscrito formato dalla particella negativa a, e laya, dalla radice verbale li, che significa dissolvere, scomparire. Alaya non deve essere confusa con alaya-vijnana, che troviamo frequentemente negli scritti della scuola Mahayana. Alaya e alaya non sono le stesse. Alaya possiamo chiamarla mahabuddhi o buddhi cosmico, vale a dire il Secondo Logos Cosmico, mentre alaya significa un ricettacolo, una dimora, ed è spesso usata misticamente per indicare la casa del tesoro della saggezza e della conoscenza. Vijnana significa il potere di discernimento o ragionamento. Nella costituzione umana, alaya-vijnana corrisponde all'ego reincarnante o manas superiore, che è il deposito di tutte le esperienze intellettuali e spirituali raccolte dall'ego umano in ciascuna delle sue incarnazioni. Ė, quindi, la sede della saggezza accumulata che umanamente appartiene alla natura spirituale dell'uomo; ed è, in un certo senso, lo scopo della sua futura evoluzione e, nello stesso tempo, a causa dei semi karmici del destino che essa contiene, la causa delle incarnazioni. Alaya-vijnana è quasi identica alla vijnanamaya-kosa del Vedanta, letteralmente: pensiero che diventa un rivestimento, e che è vicino a quello supremo, o anandamaya-kosa, il rivestimento della beatitudine cosciente, la quale corrisponde a buddhi; mentre nell'uomo è il vertice della costituzione.
[11] I diciotto modi per descrivere il concetto di 'vacuità' sono:
1. Adhyatma-sunyata — il vuoto delle cose interne, con cui s'intendono le sei vijnana o coscienze, le nostre attività che così sono viste come prive di qualsiasi permanenza.
2. Bahirdha-sunyata — il vuoto delle cose esterne, che si riferisce agli oggetti delle sei coscienze, oggetti che riteniamo vuoti perché la nostra mente che visiona non comprende la realtà dietro di loro.
3. Adhyatma-bahirdha-sunyata — il vuoto delle cose interne ed esterne: significa che anche la distinzione nei concetti di interno ed esterno non ha realtà alcuna in se stessa e può essere invertita ad ogni momento; questa relatività è chiamata vuoto.
4. Sunyata-sunyata — il vuoto del vuoto. L'idea stessa del vuoto non ha realtà né è raggiungibile oggettivamente.
5. Maha-sunyata — il grande vuoto, che si riferisce all'irrealtà dello spazio, considerato come un contenitore di oggetti con estensione e localizzazione, e indica il significato esoterico dello Spazio come la totalità cosciente e sostanziale di tutto ciò che è.
6. Paramartha-sunyata — il vuoto della verità finale. Per verità finale s'intende la vera esseità delle cose, lo stato in cui esse veramente sono, al di là della forma soggettiva e temporanea assunta. Lo stato delle cose di per sé non può essere descritto in alcun modo, poiché esclude tutti gli attributi o qualità, sebbene esso Sia; quindi, è detto che è vuoto dal punto di vista umano.
7. Samskrita-sunyata — il vuoto delle cose che devono venire in esistenza per le condizioni causative.
8. Asamskrita-sunyata — il vuoto delle cose che non sono soggette a causalità (come lo Spazio stesso). Il primo di questi due postula anche il fatto che tutte le cose, interne ed esterne, sono vuote, irreali. L'asamskrita esiste nella mente solo perché è in contrasto con il samskrita. L'irrealtà di quest'ultimo stabilisce il vuoto del primo.
9. Atyanta-sunyata — il vuoto finale, che evidenzia l'irrealtà incondizionata di tutte le cose oggettive, oltre qualsiasi possibile classificazione o dipendenza causativa, e significa che anche il primo velo di maya, spirituale com'è per noi umani e lungo nella durata, è tuttavia mayavico, perché, come velo, non è l'essenza eterna da cui deriva.
10. Anavaragra-sunyata — il vuoto dell'inizio primordiale. Quando è detto che l'esistenza è senza inizio, la mente si aggrappa all'idea che la mancanza di un inizio sia come un qualcosa che esiste per sé; quindi, per eliminare questo limite mentale, è messa in rilievo la sua vacuità.
11. Anavakara-sunyata — il vuoto della dispersione o differenziazione, che poggia particolarmente sulla natura composita di tutte le cose oggettive, sia visibili che invisibili, sia fisiche che mentali.
12. Prakrita-sunyata — il vuoto della natura primaria o assoluta indica il fatto che in nessun essere o cosa vi è un qualcosa che possa essere definito come una natura di per sé interamente indipendente, solitaria, auto-originata, primaria o assoluta.
13. Svalakshana-sunyata — il vuoto dell'auto-apparenza; lakshana è l'aspetto intelligibile o comprensibile di ogni entità individuale, inseparabilmente legato alla sua natura primaria. Il fuoco, ad esempio, è intelligibile attraverso il suo calore; l'acqua attraverso la sua fluidità, ecc. Per vacuità di questi 'auto-aspetti' o 'auto-caratteristiche' s'intende che qualsiasi oggetto specifico non ha caratteristiche permanenti e irriducibili che possano essere considerate proprio le sue.
14. Sarvadharmasya-sunyata — il vuoto di tutti gli oggetti dei sensi e del pensiero, il vuoto di tutto l'universo oggettivo. Tutte le caratterizzazioni sono impermanenti, relative e fenomeniche. Anche la nostra idea umana che la Realtà è eterna, auto-originata, che si auto-governa, ed è priva di ogni contaminazione, è in se stessa una limitazione, e quindi non è Realtà.
15. Anupalambha-sunyata — il vuoto della non-comprensione o dell'inaccessibilità. Ciò implica che, sebbene la Realtà non possa essere un oggetto del pensiero relativo, oggettivamente comprensibile, e non possa quindi essere definita come 'accessibile,' tuttavia può essere vissuta e realizzata direttamente attraverso prajna.
16. Abhava-sunyata — il vuoto del non-essere.
17. Swabhava-sunyata — il vuoto della natura di sé.
18. Abhava-swabhava-sunyata — il vuoto del non-essere della propria natura. Questi tre termini indicano la vacuità di tali concetti, come essere e non-essere, e l'ulteriore vacuità del loro reciproco contrasto. Perché la Realtà giace dietro questa distinzione, ed è indipendente da essa. (vedi: Essays in Zen Buddhism, III Serie, di D. T. Suzuki, pp. 128, 222-8.)
[12] Per chi è particolarmente interessato alle differenti scuole della filosofia hindu, potrebbe essere d'aiuto quanto segue. Vi sono attualmente sei scuole o darsana, un termine sanscrito che letteralmente significa visione. Queste sono la Nyaya, fondata da Gotama; la Vaiseshika, fondata da Kanada; la Sankhya, di Kapila; lo Yoga di Patanjali; e il Vedanta Maggiore e Minore, fondato da Vyasa. Del Vedanta Maggiore, la scuola più diffusa è quella Adwaita, dovuta all'insegnamento di Sankaracharya. Tutte queste, in una certa misura, contengono la verità; ma ciascuna non è che un singolo ramo della scuola maestra che le unifica tutte, la quale, riconosciuta o no, è la filosofia esoterica.
Questi sei grandi sistemi sono logicamente riducibili a tre coppie: (a) il Nyaya e il Vaiseshika, che potremmo chiamare Scuola Atomistica, corrispondente all'Arambha; (b) il Sankha e lo Yoga, che corrispondono al Parinama; (c) Il Vedanta Minore e quello Maggiore, che potremmo chiamare Scuola Idealistica, corrispondente al Vivarta.
[13] Il termine tecnico per queste apparizioni è nama-rupa — un composto sanscrito che significa nome-forma, nama equivale a idee o concetti, e rupa significa oggettivazione o immagini o forme in cui queste idee si manifestano.
[14] Nel Buddhismo un tempo c'era una scuola altamente filosofica chiamata Swabhavika a causa dell'insistenza dei suoi insegnanti sul fatto che tutte le unità entitative, o esseri, vennero in esistenza ovunque nel tempo e nello spazio, e svanirono a causa delle energie individuali in se stesse. Queste energie percorrono l'intera gamma del Mistero cosmico, dal divino attraverso lo spirituale, l'intellettuale, lo psichico, l'emotivo, l'astrale, fino al fisico. Questa scuola è stata a lungo all'unisono con la filosofia esoterica; ma per lunghi secoli la Swabhavika è degenerata fortemente sia nel concetto filosofico che nella comprensione, per cui oggi è effettivamente una scuola di un materialismo camuffato.
[15] Le Lettere di H. P. Blavatsky ad A. P. Sinnett, p. 253 ed. or.; p. 153 online Istituto Cintamani.